di Maurizio Centra*
D. Poco più di un mese fa ha fatto scalpore la sentenza della Corte Costituzionale n. 70 del 2015 in materia di perequazione pensionistica, da lei – tra l’altro – considerata una sentenza annunciata, che afferma o forse sarebbe meglio dire ribadisce un principio di civiltà ancor prima che di equità: “non è ammissibile peggiorare un trattamento pensionistico in atto in misura notevole ed in via permanente senza una inderogabile esigenza …”. Ma, escludendo un accanimento del legislatore nei confronti dei pensionati, ci può illustrare la ratio della norma censurata dalla Corte e la “stratifica- zione”, se così si può dire, dell’orientamento della stessa Corte sugli interventi di contenimento, per esigenze di finanza pubblica, che hanno riguardato le pensioni negli ultimi anni?
R. Appena nota la sentenza, ho cercato di esprimere il prima possibile una valutazione sintetica (ma come è difficile la sintesi: lo diceva Pascal, quando si scusava con suo amico per non avere avuto il tempo di esse- re sintetico nello scrivergli una lettera), così da anticipare in qualche modo il dibattito e possibilmente orientarlo su linee di ragionevolezza. Non ci sono riuscito, e, come era prevedibile, la sentenza ha scatenato pole- miche anche – e questo lo considero di estrema gravità – a livello istituzionale, con puntualizzazioni piccate del Presidente della Corte costituzionale e del Ministro dell’Economia. Ho terminato oggi di elaborare una nota di commento per la rivista “Giurisprudenza costituzionale” (soffrendo del limite redazionale dei 30.000 caratteri), ed ho cercato di ricostruire – al di là dello specifico tema della perequazione, che è solo una componente, seppure importante, del trattamento pensionistico – come si è formato l’impianto previdenziale italiano (inizialmente sbilanciato verso la protezione dell’evento vecchiaia, anche se le riforme dal 1992 in poi hanno cercato di correggere questa linea).La vicenda legislativa, ed anche giurisprudenziale, della perequazione, è risalente alla legge n. 153/1969, ed ha soprattutto coinvolto, come addendo alla misura del tratta- mento inziale, le prestazioni pensionistiche calcolate con il metodo retributivo, che dopo lo sfondamento dei massimali (legge n. 448/1988) ha finito per essere significativa- mente consistente (la media della retribuzione degli ultimi dieci anni avvantaggia la posizione di coloro che non hanno una carriera piatta. Il contenimento della perequazione oltre determinate soglie risponde dunque ad esigenze di finanza pubblica, ma risponde anche ad un criterio di equità redistributiva. Si aggiunga che, secondo l’insegnamento della stessa Corte costituzionale (n. 393/2000) le prestazioni integrative a prestazione definita fanno cumulo con quelle di base, raggiungendo spesso importi considerevoli: non pochi trattamenti superano di slancio i 5.000 euro al mese.Il punto è che non ritengo che regga più il criterio della necessaria corrispondenza fra retribuzione e prestazione pensionistica: basti solo ricordare i radicali mutamenti che hanno caratterizzato il sistema: i) a partire dalla presupposta condizione di bisogno sintetizzata nel termine “vecchiaia”, il cui rischio demografico è spalmato oramai su di un arco temporale ben più ampio che in passato; ii) a seguire, con la accumulazione contributiva, vieppiù correlata a situazioni professionali estremamente variabili e flessi- bili, con una importante implementazione dei periodi di contribuzione figurativa, nell’ambito di un sistema a capitalizzazione individuale; iii) alla adozione del parametro finanziario fondato sull’andamento del PIL, che fra l’altro ha riservato la pessima sorpresa del segno negativo1. Si aggiunga che allo stesso provvedimento del 1969 risale la introduzione del meccanismo perequativo, ispirato alla componente retributiva della scala mobile: questa ha oramai da lungo tempo esaurita la sua funzione, ed anzi è stata proprio la Corte costituzionale (cfr. sentenze n.ri 124/1991 e 34/1985) ad affermare – seppure con qualche riserva – la legittimità delle norme di legge sul supera- mento del meccanismo di adeguamento della retribuzione, risolvendo oltre tutto un (all’epoca) delicatissimo problema di rapporti fra legge e contrattazione collettiva in relazione alla sottesa idea di ordine pubblico economico.Tutti questi argomenti avrebbero dovuto indurre la Corte, se non addirittura a rivede- re l’idea della corrispondenza fra art. 38 ed art. 36 (della Costituzione N.d.R), quanto me- no a trovare una soluzione in termini di differimento degli effetti della pronuncia, secondo una linea già sperimentata.
D. Per la restituzione ai pensionati della “mancata perequazione”, a seguito della sentenza della Consulta n. 70 del 2015, il Governo è intervenuto, piuttosto tempestivamente, con l’art. 1 del decreto legge 21 maggio 2015, n. 65 “Disposizioni urgenti in materia di pensioni, di ammortizzatori sociali e di garanzie TFR”. Secondo lei il provvedimento rispetta la sentenza e, nel caso, va nella direzione di evitare peggioramenti permanenti dei trattamenti pensionistici in assenza di esigenze inderogabili?
R. L’art. 17, comma 13, della legge n. 196/2009 impone al Governo di tamponare gli effetti squilibranti di decisioni. Ora il Governo è intervenuto, e si apre il dibattito in Parlamento per convertirne il contenuto con legge ordinaria, secondo un iter che, salvo il ricorso alla fiducia, non dovrebbe consentire al Governo di ignorare totalmente – come accaduto ai pareri delle Commissioni parlamentari per le leggi delegate in base al Jobs act – le indicazioni del Parlamento. Mi domando se la domanda che mi è stata posta parta dall’idea che non siamo in una situazione eccezionale, legata ad esigenze inderogabili. Io non credo che questa sia proprio la nostra situazione, tanto più alla luce dei recentissimi, odierni eventi internazionali ed europei. Si può semmai discutere se sia corretto che la compressione riguardi solo i redditi da pensione, ma mi pare che ce n’è un po’ per tutti, di questi tempi, e mi rivolgo ad una categoria professionale che in questi giorni è impegnata proprio su questo fronte. Qualche perplessità esprimo sul mix che il governo ha inteso realizzare, aggiungendo alla risposta secca alla Cote anche altri temi. Questo complicherà il dibattito parlamentare? Lo sapremo in questa settimana.
1. Evenienza fronteggiata con forti difficoltà politiche proprio nell’art. 5 del d.l. 21 maggio 1965, n. 65. Vedi al riguardo le mie proteste non appena si diffuse l’idea di una riduzione del mon- tante (Corsera, 8 dicembre 2014).
D. La norma censurata dalla Consulta con la sentenza n. 70 del 2015, ai non addetti ai lavori, sembrava riguardasse le c.d. pensioni d’oro. Adesso la situazione appare diversa, ma queste fantomatiche pensioni d’oro esisto- no, quali solo e, secondo lei, ove si volessero contenere in modo equo e corretto, come si potrebbe fare?
R. Sono ben note situazioni in cui per effetto di cumulo di trattamenti, o di eccessiva anticipazione del trattamento (magari anche modesto, ma attuarialmente rilevante se spalmato su pensioni di durata doppia rispetto alla durata della vita lavorativa), o anche per carriere con una curva molto progressiva nell’ambito del criterio retributivo, il trattamento pensionistico è sperequa- to/eccessivo rispetto al montante contributivo. Da quale livello la pensione sperequata diventa addirittura d’oro, è difficile dirlo. Il legislatore nel 2011 ci ha provato: è finita male, come ci ha dimostrato la corte Costituzionale nella sentenza n. 316/2013; attendiamo la prossima in argomento. Però, è evidente che quantità fa qualità, quindi un diffuso numero di pensioni medio/alte, anche se non d’oro, muove ingenti quantità di risorse finanziarie. Venendo comunque alla soluzione, vorrei dire che, a parte la necessaria conferma del coinvolgimento delle prestazioni integrative a prestazione definita, le misure riconosciute agli interessati dall’art. 1, d.l. 21 maggio 2015, n. 66, secondo il differenziato scaglionamento per il triplo, il quadruplo, il quintuplo ed il sestuplo, fermo il calcolo per scaglioni progressivi, risponde ad una indicazione che appare oramai consolidata nella precedente giurisprudenza, e ripresa nella sentenza n. 7/2015, e quindi non dovrebbe sollevare ulteriori problemi. La differenziata – e piuttosto modesta, a ben guardare – misura dell’incremento per i bienni 2012-2013, 2014-2015 e per il 2016, alimenterà invece, a mio avviso e salva correzione del Parlamento, polemiche serie ed un aspro contenzioso, acuito laddove concorrano forme pubbliche e forme private integrative: ma proprio su questo punto, della misura della perequazione, che comunque mantiene il suo effetto di moltiplicatore composto, potrà utilmente – spero – ulteriormente svilupparsi il dibattito in ordine al superamento, o almeno alleggerimento, del vincolo stabilito da oltre trenta anni fra art. 36 ed art. 38, le cui storie sono oramai diversificate.
D. Lei nella mente e nel cuore di una moltitudine di studenti di economia dell’Università La Sapienza di Roma, molti dei quali sono oggi professionisti affermati, è “Il Professore di diritto del lavoro”, ovviamente senza nulla togliere ai suoi illustri colleghi della stessa e di altre Università. Le fa piacere sapere che negli ultimi anni i Commercialisti di tutta Italia si stanno interessando sempre più alla “sua” materia, come dimostrano anche la nascita del Comitato scientifico Gruppo Odcec Area lavoro, che si prefigge di favorire la diffusione della conoscenza scientifica e della pratica professionale in materia di diritto, economia ed organizzazione del lavoro, e della rivista Il Commerci@lista lavoro e previdenza, che la ringrazia della disponibilità, e quali suggerimenti darebbe loro per svolgere al meglio la loro attività professionale in momento di cambiamento come quello attuale?
R. Le ho già espresso la mia commozione per le parole che mi riserva, e che so di meritare poco, proprio comparandomi con altri Colleghi della mia generazione che sono stati maestri di molti di Voi: penso specialmente a Matteo Dell’Olio. Sono comunque certamente lieto che il mio insegnamento e la mia dedizione agli allievi sia apprezzata, e mi auguro che ne possiate trarre ancora giovamento, anche in un momento così critico come quello odierno, in cui mi permetto di consigliare a tutti noi, a cominciare da me – se ancora in tempo – a ritornare sui banchi con tanta umiltà e disponibilità a riconsiderare tutto, dalle fondamenta, ma senza mai rinunciare alla dimensione etica del lavoro.
Nota: L’autore dell’intervista è stato allievo del Prof. Pasquale Sandulli presso l’Università La Sapienza di Roma.
* ODCEC di Roma