La mappa internazionale del lavoro
di Paolo Soro*
Intrappolati nella nostra quotidianità, lastricata da innumerevoli ed estenuanti adempimenti, siamo spesso costretti a rubare preziosi momenti alle famiglie (e al più che meritato riposo domenicale), per immergerci obtorto collo nello studio delle numerose novità legislative, che oramai scandiscono la vita dei commercialisti con lo stesso ineluttabile alternarsi del giorno alla notte. Così facendo, però, dimentichiamo che abbiamo altresì il dovere di ritagliarci un minimo di tempo da dedicare a un aspetto fondamentale della nostra formazione professionale: ovverossia, l’analisi del mercato nazionale e internazionale in cui operiamo.
Il fine anno e le meritate vacanze di Natale ci consentono di tirare le somme, approfondire la nostra usuale conoscenza del mercato (quanto meno, quello di primo riferimento) e provare ad immaginare il futuro verso cui ci stiamo incamminando. Sfogliando le pagine dei quotidiani, ascoltando le notizie alla radio e alla TV, o ancora – come più spesso accade – “navigando” tra i portali Web dell’informazione, tutti quanti siamo perfettamente al corrente del costante esodo dall’Italia alla volta di territori economicamente più ospitali; una vera e propria transumanza umana. Solo un paio d’anni orsono, ci cimentavamo nello studio di una manovra legislativa che varava una nuova categoria di cittadini: gli esodati. Allora, invero, si trattava di pensionati (o presunti tali); oggi, andando ad analizzare con attenzione l’involuzione verificatasi nella struttura sociale del Belpaese, dobbiamo amaramente riscontrare come la categoria degli esodati sia in continuo aumento e sia rappresentata in massima parte da giovani neolaureati in cerca “d’autore”, prigionieri disagiati in patria e non certo da pensionati! Per quanto quasi tutti conoscano l’esistenza di alcune giurisdizioni tributarie e previdenziali di particolare favore, come, per esempio, il Portogallo, proprio per i beneficiari di pensioni pubbliche; che, dunque, tendono a emigrare in terra lusitana, onde cercare legittimo refrigerio atlantico contro l’afa fiscale mediterranea, da cui sono evidentemente rimasti per troppo tempo oppressi durante la loro vita lavorativa.
Al di là di certe considerazioni legate a specifici settori, quello che in questa sede interessa è piuttosto un orizzonte di carattere generale di cui dar conto e, sotto quest’ottica, ciò che pare a tutti evidente è che, a distanza di tanti anni, dopo aver plasmato la novella classe medio-borghese nell’epoca del benessere post-industriale degli anni ‘70, con inesorabile ciclicità, detta classe è praticamente scomparsa e l’Italia è di nuovo piombata nella disperazione dei debiti e della stagnazione economica, ritornando a essere fortemente costituita da una popolazione di emigrati: non più, uomini del Sud senza istruzione, ma laureati provenienti da ogni parte del Paese. Ebbene, con l’obiettivo di tracciare l’odierna mappa del lavoro internazionale, attraverso la quale acquisire un’indispensabile conoscenza del mercato, ci è parso innanzitutto doveroso prendere atto con esattezza dei dati oggettivi che originano e – nel contempo – testimoniano, i movimenti della forza lavoro tra le varie nazioni. Purtroppo, è risaputo come, in Italia, qualsivoglia indagine statistica che necessariamente vada pure ad assumere connotati di carattere politico, appaia di assai improbabile credibilità e affidabilità. Possiamo, quindi, solo provare a immaginare quanto diverrebbe utopistico anche solo sperare di raccogliere certezze in rapporti che illustrino performance economiche o afferenti al mercato del lavoro; ergo, la fonte da cui estrapolare certi numeri riveste una rilevanza fondamentale.
Abbiamo quindi ritenuto di dover reperire quanto di funzionale al nostro obiettivo presso il portale di un organismo internazionale super partes: vale a dire, l’OCSE. I risultati, a nostro modesto avviso, sono – se possibile – ancora più sconcertanti rispetto a quello che sarebbe stato lecito attendersi. In ogni caso, giusto per tacitare sul nascere qualunque eventuale obiezione degli scettici, l’andamento evidenziato nei report di matrice OCSE appare assolutamente in linea con quanto viene fotografato dai gruppi di studio della Commissione UE. Ebbene, l’OCSE ha appena pubblicato una relazione intitolata: “Perspectives on Global Development 2017”, nella quale viene evidenziato come, nonostante il crescente dinamismo economico di molte regioni in via di sviluppo, i flussi migratori internazionali non sono stati dirottati verso questi nuovi poli alternativi, ma piuttosto si stanno concentrando nelle economie avanzate, dove esiste una ricerca di manodopera altamente qualificata, un elevato livello di reddito pro-capite e un basso tasso di disoccupazione generale. In particolare, mentre la quota di migranti a livello mondiale provenienti dai Paesi in via di sviluppo è rimasta abbastanza stabile (intorno all’80% negli ultimi 20 anni), la quota dei migranti diretti in Paesi ad alto reddito è passata dal 36% al 51% del totale mondiale. Il differenziale di reddito medio pro-capite tra i Paesi in via di sviluppo e le economie avanzate, è aumentato, passando da circa 20.000 dollari nel 1995, a più di 35.000 nel 2015, così rendendo le economie avanzate ancora più attraenti per i migranti. Oltre, dunque, al fatto che la disparità resta particolarmente elevata nonostante gli enormi progressi compiuti dai Paesi in via di sviluppo, intervengono poi altri fattori, come la presenza di reti di migranti (famiglia, amici e comunità) che già vivono nei Paesi di destinazione, a facilitare nuovi e sempre maggiori flussi migratori, rafforzando la concentrazione in alcune destinazioni preferite. Ulteriori condizionamenti ai modelli di migrazione includono, poi, le politiche di immigrazione, l’aumento dei livelli di istruzione, e soprattutto i cambiamenti demografici e del mercato del lavoro le cui necessità, ormai, concernono tutto il mondo.
La quota della popolazione c. d. “Expa” è passata dal 2,7% del 1995, al 3,3% nel 2015, con un incremento di circa 85 milioni di persone in due decenni, per un totale di oltre 245 milioni di migranti internazionali; seppure è da considerare che una piccola parte di questi ha operato la scelta “Expa” per ragioni di carattere esclusivamente fiscale. Ma l’emigrazione può anche dipendere da questioni prettamente economico-sociali, come la carenza di manodopera, la perdita in particolare di lavoratori istruiti e qualificati, o le ripercussioni sociali per i membri della famiglia che ci si è lasciati alle spalle. Le Autorità pubbliche nei Paesi d’origine devono affrontare tali costi, cercando contemporaneamente di massimizzarne i benefici. I territori di destinazione, dal loro canto, possono sfruttare i migranti per colmare le carenze di lavoratori, soprattutto in settori specifici. Tuttavia, nella realtà pratica, gli immigrati continuano ad avere molte meno probabilità di ottenere dei contratti di lavoro formali e, soprattutto, uguali, rispetto a quelli dei lavoratori residenti.
In un altro recentissimo rapporto, l’OCSE ha testato la preparazione di circa 540.000 studenti di 15 anni, provenienti da 72 Paesi, in materie quali: scienza, matematica, lettura e capacità di problem-solving. Orbene, prima di riprendere l’analisi dei dati strettamente concernenti l’economia e il lavoro, pare il caso di dare uno sguardo anche a tali ulteriori report statistici, atteso che l’istruzione ricevuta è la principale leva che i cittadini hanno a disposizione per decidere di azionare i propri spostamenti nei differenti mercati; e ciò proprio in considerazione di quelle problematiche di tipo sociologico che caratterizzano le varie collettività. Il documento dimostra che i risultati più brillanti sono stati colti da quegli studenti frequentanti le giurisdizioni in cui sono state aumentate le spese pro-capite per alunno nelle scuole primarie e secondarie. Singapore è, nel dettaglio, il Paese che ha conseguito la votazione migliore con riferimento a equità, qualità ed efficienza dei sistemi scolastici. I primi Stati dell’OCSE, come punteggio finale globale, sono risultati essere: Giappone, Estonia e Canada. Canada, Danimarca, Hong Kong e Macao, hanno raggiunto elevati standard di eccellenza ed equità nei risultati educativi. Un certo numero di nazioni, poi, hanno diminuito le disuguaglianze tra le varie scuole (in particolare, gli Stati Uniti). In Australia, Repubblica Ceca, Finlandia, Grecia, Ungheria, Nuova Zelanda e Slovacchia, infine, la quota di studenti che ottengono livelli di eccellenza è scesa drasticamente. Ma, cosa evidenzia la relazione dell’OCSE a proposito della scuola italiana? Per quanto riguarda le materie oggetto dei test:
- in Scienza e problem-solving, siamo decisamente sotto la media OCSE (con un andamento stabile negli ultimi 10 anni);
- in Matematica, quasi alla pari alla media OCSE, dopo un enorme incremento verificatosi negli ultimi 10 anni;
- bene, infine, in lettura.
Occorre, peraltro, considerare che le materie umanistiche (generalmente, punto di forza degli studenti italiani), non costituiscono più oggetto di test, in quanto, a parere dell’OCSE, poco utili da un punto di vista dei futuri bisogni internazionali del mercato del lavoro (per quel poco che può valere, chi scrive non condivide affatto tale opinione). Per quanto riguarda il grado di equità (ossia, presenza di disuguaglianze all’interno della nazione), il dato italiano continua a permanere parecchio negativo rispetto alla media dei Paesi OCSE. Superiore alla media degli altri, invece, risulta essere il grado di impatto sociale tra studenti immigrati e residenti. Peraltro, il responso che maggiormente interessa, ossia quello attinente alla percentuale di studenti che emigrano fin dal liceo è, com’era da aspettarsi (dopo 10 anni di continua crescita), uno dei dati in assoluto più elevati tra tutti i Paesi membri dell’OCSE, ben al di sopra, dunque, della media generale. Dunque, possiamo definitivamente sfatare il falso archetipo dei ragazzi italiani, popolo di mammoni.
Altro fattore oggetto di analisi da parte dell’OCSE è stato quello connesso alle riforme che stimolano la crescita economica, aumentando notevolmente la flessibilità del lavoro: inutile rimarcare come, specie in Italia, detta flessibilità generi enormi preoccupazioni nei lavoratori che temono conseguenze negative in ordine alla stabilità occupazionale. Gli occupati, dunque, di regola si oppongono a tali innovative proposte economiche. L’OCSE ha raccolto, armonizzato e sondato i dati microeconomici che riguardano singole famiglie in 26 Paesi, nel corso degli ultimi due decenni. Ebbene, la conclusione fondamentale è che le riforme atte a migliorare la concorrenza nei mercati di beni e servizi, generalmente, aumentano le possibilità di collocamento per le persone senza lavoro. Allo stesso tempo, poi, non comportano un incremento analogamente rilevante dei tassi che misurano la perdita del lavoro; di tal guisa che, complessivamente, si raggiunge un effetto positivo, seppure non in termini eclatanti.
Ovviamente, trattasi di dati – come premesso – di tipo microeconomico. Sarebbe importante capire se, anche a livello macroeconomico (vale a dire, secondo una corretta visione keynesiana del mercato mondiale), i numeri verrebbero confermati, quanto meno nella loro sostanza. In effetti, i risultati si appalesano particolarmente influenzati in funzione della tipologia di soggetti: le percentuali maggiori di collocamento nei mercati più competitivi maturano principalmente per i giovani e le donne; viceversa, gli uomini (non più giovani) non paiono avere alcun tipo di beneficio nella ricerca di occupazione in questi mercati maggiormente competitivi. Detti mercati comportano numerose e frequenti rotazioni per i lavoratori a basso reddito e scarsa specializzazione, ma più brevi periodi di disoccupazione; per modo che le prospettive medie di occupazione nel corso del tempo restano generalmente invariate.
Dando uno sguardo ai dati generali, andiamo ad avere conferma di quanto già sapevamo: l’Italia (11,7%), dopo Grecia (23,3%) e Spagna (19,2%), è il Paese con il più elevato tasso di disoccupazione; anche il Portogallo (10,8%), autore di un trend in continuo miglioramento durante tutto il 2016, chiude l’anno con valori inferiori rispetto a quelli italiani. Ciò che, peraltro, pare davvero negativo è l’andamento registrato mensilmente dal nostro Paese, rispetto a quello evidenziato dagli Stati che hanno conseguito le performance peggiori:
– la Grecia è passata dal 23,9% di gennaio al 23,3% di ottobre;
– la Spagna faceva segnare a gennaio un 20,4% e a ottobre riporta 19,2%;
– il Portogallo a gennaio era al 12,1%; a ottobre: 10,8% (dunque, ci ha superato nel corso del 2016);
– la Francia che registrava un 10,3% a gennaio, chiude ottobre al 9,7%;
– l’unica è la Turchia ad avere un andamento negativo, dal 10,1% di gennaio all’11,4% di ottobre (peraltro, comunque inferiore al dato finale italiano), ma le ragioni che riguardano il risultato turco hanno ben altre e tragiche motivazioni, a tutti arcinote.
L’andamento del dato italiano è stabile (come lo era nel 2015), ma assai altalenante, tanto da essere giudicato “unaccountable” (alquanto incomprensibile) dall’OCSE. Solo noi, addetti ai lavori, sappiamo perfettamente quali sono le ragioni di questo sali-scendi, senza alcuna apparente logica per gli esperti stranieri (cfr. job act, chiusura co.co.pro., sgravi che vanno e vengono etc.). Venendo ai numeri nudi e crudi: l’Italia parte a gennaio coll’11,7%; ad aprile eravamo scesi all’11,5%; a maggio, abbiamo registrato un 11,6%; agosto ancora all’11,5%; a ottobre (ultimo dato disponibile), chiudiamo in “bellezza”, risalendo fino all’11,7% di inizio anno.
Andando, ora, a dare uno sguardo ai connessi dati di carattere tipicamente economico, strettamente correlati al mercato del lavoro, abbiamo la conferma delle performance negative italiane. Con riguardo alle economie con il livello più basso di crescita del Prodotto Interno Lordo (GDP – Gross Domestic Product), sempre dati riferiti all’ultimo biennio, abbiamo quanto segue:
– Francia da 104,8 (2015) a 106,1 (2016) = + 1,3
– Grecia da 81,5 (2015) a 82,3 (2016) = + 0,8
– Spagna da 98,8 (2015) a 102,4 (2016) = + 3,6
– Portogallo da 95,5 (2015) a 97,1 (2016) = + 1,6
– Turchia da 124 (2015) a 127,3 (2016) = + 3,3
E l’Italia? Il dato 2015 è 96,8; nel 2016, il risultato diventa 97,5 = + 0,7; la crescita più bassa registrata, in pratica riusciamo a far peggio pure della Grecia.
Non pare il caso di soffermarvisi in questa sede, ma consigliamo al lettore di andare a leggere i dati, altrettanto interessanti, concernenti le variazioni intervenute, nello stesso biennio, per quanto riguarda i volumi dei consumi privati e, soprattutto, pubblici. Parrà, infatti, contraddittorio per qualsivoglia persona dotata di buon senso, ma, nonostante tale disastrosa complessiva situazione, le scelte amministrative hanno comportato un aumento della spesa pubblica. Dopo di che, pare naturale e inevitabile che arrivino ramanzine e avvertimenti dall’UE; così come sembra davvero incomprensibile che il nostro governo si dichiari pure stizzito nel ricevere tali atti dovuti. Prendiamo a esempio il settore del lavoro, che è poi quello di precipuo interesse nell’odierna sede. Da un lato, si sono eliminati definitivamente i benefici contributivi previsti dalla legge 407/1990, provando inutilmente a tamponare la situazione con provvedimenti parziali e temporanei (quali gli esoneri del 2015, o gli sgravi del 2016), che ovviamente non hanno apportato alcun concreto vantaggio. Dall’altro, nonostante il nuovo sistema a tutele crescenti, resta assai difficoltoso e problematico risolvere un rapporto di lavoro senza subire strascichi di carattere contenzioso; cosa che certo non favorisce nuove assunzioni. Siccome, però, si è pensato di rendere illegittimi i contratti di lavoro a progetto, oltre a quasi tutti i rapporti di collaborazione, questo ha obbligato gli imprenditori a trasformare i para-subordinati in subordinati, così contestualmente ufficializzando un dato che dava, in diminuzione, i disoccupati. Ma, da un lato, l’effetto (com’era ovvio) non poteva che essere di scarso valore e comunque meramente temporaneo; dall’altro, nella sostanza, è fortemente aumentato il numero di persone che, di fatto, ora si ritrova senza nemmeno un lavoro di tipo precario.
A nostro modestissimo avviso, diminuire i costi generali delle imprese agendo pesantemente e drasticamente sul complessivo cuneo fiscale, non significa aiutare i datori di lavoro, ma i lavoratori. E, considerato l’aumento immediato di produttività (rectius, fatturato) che ciò procurerebbe, gli investimenti dello Stato verrebbero a brevissimo termine immediatamente recuperati (con gli interessi) dal conseguente aumento delle entrate erariali.
Siamo tutti concordi nel giudicare sbagliato prevedere sgravi e agevolazioni per le imprese sine die, ma la scadenza dovrebbe essere collegata alla effettiva mutata situazione economica generale. Se gli aiuti sono stati deliberati a causa della generale negativa situazione, finché permangono crisi e stagnazione, sarebbe logico stabilire che dette agevolazioni restino in vigore e, soprattutto, essere accompagnate e supportate da azioni di tipo prettamente economico che possano davvero far “riaccendere” il motore della nazione. Cosa si fa quando la macchina si ferma e non si riesce più a farla ripartire, se non provare a darle una poderosa spinta?
Alla luce di questa analisi del mercato, filtrata attraverso la lettura dei dati ufficiali internazionali, anche gli inguaribili ottimisti – al momento – prevedono un 2017 sulla falsa riga del trascorso 2016, ovvero pervaso da stagnazione economica e con un maggiore flussi di migranti. Vale a dire:
– aumento di immigrati senza alcuna particolare qualifica: dunque, soggetti che non apportano valore aggiunto alla produttività nazionale;
– incremento di emigrati, laureati e specializzati: che non hanno speranze di occupazione in patria e vanno a cercarle all’estero (alla faccia della famosa disposizione per favorire il rientro dei “cervelli” in Italia – art. 16, D.Lgs. 147/2015 – altra norma concettualmente errata, dal fallimento preannunciato prima ancora di entrare in vigore).
L’attuale mappa internazionale del lavoro (con ovvio riferimento alla principale massa dei flussi migratori), disegna anche per l‘anno appena iniziato rotte che dall’Italia conducono verso le note economie avanzate, ad alto livello di reddito pro-capite e basso tasso di disoccupazione, quali, soprattutto: Singapore e Hong Kong (in Asia); Canada e Stati Uniti (in America). Perdono appeal, invece, tutti i c. d. Paesi in via di sviluppo (in primis, le nazioni BRIC). Quanto al vecchio continente, le mete più ricercate restano la Svizzera e la Germania, con l’incognita Gran Bretagna che, a seguito della Brexit, potrebbe diventare particolarmente allettante, ma al momento rappresenta ancora una scelta particolarmente azzardata.
* ODCEC Roma
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