Riflessioni sulle conciliazioni e transazioni in sede protetta ( ex Art. 2113 del Codice Civile ed artt. 410 e seguenti del Codice di Procedura Civile) – II Parte

di Stefano Ferri* 

Proseguendo la trattazione dell’argomento in oggetto (per la prima parte si veda il n. 1/2016, pag. 7 e segg. di questa Rivista), risulta certamente importante definire i confini giuridici di rinunzie e transazioni, traendo dal diritto privato le relative indicazioni.

La dottrina più autorevole ha considerato che perché si abbia rinunzia vi deve essere la totale e deliberata manifestazione di volontà a diritti ben determinati, in piena consapevolezza; si parla invece di transazione se è insorta una lite pendente circa una res dubia, di esito incerto, e per porvi fine si effettuino reciproche concessioni. In sostanza, perché il lavoratore, parte debole del rapporto, possa impugnare il negozio, è necessario che si concretizzi una rinuncia di questi, almeno parziale, ai diritti astrattamente rivendicabili; pertanto nell’articolo 2113 del codice civile l’espressione “rinunzie e transazioni” è una endiadi, quindi un modo di esprimere con due parole il concetto. Non è necessaria una vera e propria transazione, ma è sufficiente una rinuncia, almeno parziale, ad uno dei diritti rivendi- cabili dal lavoratore. Corollario di tale impostazione è che non solo le vere e proprie rinunzie e transazioni possono essere impugnate ex articolo 2113 del codice civile, ma allo stesso regime è assoggettata ogni manifestazione di volontà che dia origine ad un negozio abdicativo. Ovviamente anche in questo caso la dottrina, soprattutto di orientamento datoriale, cercò ogni scappatoia per evitare l’applicazione dell’articolo in questione. Il più incisivo di tali tentativi fu quello del professor Peretti Griva, che, partendo da una distinzione tra lite sul fatto e lite sul diritto, sostenne che il lavoratore poteva ben disporre circa l’esistenza o meno dei presupposti di fatto e abdicare agli stessi. In realtà la presente teoria, che in un primo tempo aveva suscitato interesse nei cultori della materia, non ha retto nel tempo ed è stata avversata dalla giurisprudenza, fino a perdere ogni rilevanza. E’ stato infatti correttamente osservato che in una lite i presupposti di fatto e di diritto formano un insieme che non può essere separato e considerato separatamente.

Qualsivoglia valutazione su un diritto indisponibile deve essere fatta solo ed esclusivamente dal giudice, che assicura la necessaria imparzialità. Il giudice, ovviamente, decide considerando sia il diritto che il fatto e quest’ultimo può risultare decisivo, ad esempio nel caso in cui un dipendente avrebbe astrattamente diritto alla remunerazione per lavoro straordinario, ma nel processo non è emerso che lo abbia di fatto prestato. In conclusione, per tale inscindibilità di fatto e diritto, ogni tentativo di far fuoriuscire dall’articolo 2113 del codice civile le ipotesi di abdicazione sul fatto sono fallite.

Altro tentativo di aggirare, da parte datoriale, il disposto dell’articolo 2113 del codice civile è costituito dalle cosiddette “quietanze liberatorie”. Nella pratica quotidiana sovente ci si imbatte in datori di lavoro che, con dichiarazioni anche articolate e ben scritte sotto il profilo stilistico, spesso derivanti da formulari e da espressioni di uso comune, fanno sottoscrivere al dipendente di aver ricevuto una somma a titolo di saldo dei propri crediti e di non aver alcunché da pretendere a titolo di ulteriore spettanza. La finalità di tali quietanze è evidente: l’imprenditore non vuole essere esposto alla spada di Damocle di future richieste del lavoratore e desidera chiudere definitivamente il rapporto. Al fine di porre ulteriore pressione sul lavoratore, tali somme “a saldo e stralcio” sono di consueto corrisposte ratealmente cosicché, se il dipendente impugna la quietanza, vengono immediatamente sospesi i pagamenti.

Sulle quietanze liberatorie suddette la giurisprudenza e la dottrina hanno effettuato approfonditi e imponenti studi che, in sintesi, hanno portato alla conclusione che la mera valutazione, che può essere errata, non impegna il lavoratore in quanto deve essere considerata quale clausola di stile. Tale conclusione scaturisce dalla constata- zione che il documento in questione viene predisposto burocraticamente negli uffici amministrativi delle imprese e non viceversa, come vorrebbe lo spirito e la lettera della normativa giuslavoristica in materia, a seguito di una vera e propria vertenza, con trattative e riunioni tra le parti con il lavoratore debitamente assistito.
A tal proposito, fin dalla ben nota Sentenza n. 12983 del 09/12/1992, la Corte di Cassazione ha valutato che la dichiarazione rilasciata dal lavoratore che attesta di aver ricevuto una determinata somma a totale soddisfazione di ogni sua spettanza, e di non aver null’altro a pretendere da parte datoriale, costituisce di regola una mera dichiarazione di scienza: in caso di errore il dipendente può agire, entro il termine di prescrizione, per la tutela dei diritti in realtà insoddisfatti;
la dichiarazione stessa, se relativa a diritti “protetti”, può assumere valore di una rinuncia o di una transazione, annullabile come previsto dall’articolo 2113 del codice civile, qualora risulti evidente che, sulla base del contesto in cui si è formata nonché delle altre circostanze che si possono desumere anche aliunde, il lavoratore aveva volontà di rinunciare o transigere su diritti circa i quali aveva completa consapevolezza e piena conoscenza. Di particolare chiarezza, sempre nell’alveo di tale linea interpretativa, è la Sentenza della Pretura di Torino del 04/08/1994 che ha stabilito che la dichiarazione del la- voratore di aver percepito una somma (o altra utilità), di essere quindi pienamente soddisfatto di ogni propria spettanza e di nulla avere a pretendere da parte datoriale, ove non sia resa con la piena consapevolezza circa l’esistenza di determinati suoi diritti (anche potenziali) e della conseguente e chiara volontà di volere abdicare agli stessi, costituisce una mera dichiara zione di scienza o di opinione rientrando nelle cosiddette quietanze a saldo. La giurisprudenza negli ultimi anni ha confermato tale linea, limitando l’efficacia di tali quietanze a saldo anche considerata la già citata consuetudine, sempre più diffusa, di redigere le stesse negli uffici amministrativi aziendali e sottoporle al lavoratore per la mera sottoscrizione, senza alcuna trattativa o vertenza effettiva: si consiglia quindi di abbandonare tali prassi, spesso giudizialmente di nessun valore o addirittura controproducenti.

Altro aspetto che ritengo di quotidiano interesse è quello della cosiddetta “conciliazione sindacale” prevista espressamente dall’articolo 411, terzo comma, del Codice di Procedura Civile che testualmente prevede: “Se il tentativo di conciliazione si è svolto in sede sindacale, ad esso non si applicano le disposizioni di cui all’articolo 410. Il processo verbale di avvenuta conciliazione è depositato presso la Direzione provinciale del lavoro a cura di una delle parti o per il tramite di un’associa- zione sindacale. Il direttore, o un suo delegato, accertatane l’autenticità, provvede a depositarlo  nella cancelleria del tribunale nella cui circoscrizione è stato redatto.
Il giudice, su istanza della parte interessata, accertata la regolarità formale del verbale di 
conciliazione, lo dichiara esecutivo con decreto.”
Sul valore di tale transazione la Suprema Corte non ha mai nutrito dubbi come evidente fin dalla Sentenza n. 5274 del 15/06/1987 che ha stabilito che tale transazione vincola il lavoratore che, con l’assistenza del sindacato, l’abbia stipulata, anche quando concerne la determinazione della qualifica del dipendente stesso. Tale impostazione si basa sul dettato letterale del più volte citato articolo 2113 del codice civile che, per il suo ruolo-cardine nella materia, ritengo opportuno riportare testualmente di seguito:

“Le rinunzie e le transazioni, che hanno per oggetto diritti del prestatore di lavoro derivanti da disposizioni inderogabili della legge e dei contratti o accordi collettivi concernenti i rapporti di cui all’articolo 409 del codice di procedura civile, non sono valide.

L’impugnazione deve essere proposta, a pena di decadenza, entro sei mesi dalla data di cessazione del rapporto o dalla data della rinunzia o della transazione, se queste sono intervenute dopo la cessazione medesima.

Le rinunzie e le transazioni di cui ai commi precedenti possono essere impugnate con qualsiasi atto scritto, anche stragiudiziale, del lavoratore idoneo a renderne nota la volontà.

Le disposizioni del presente articolo non si applicano alla conciliazione intervenuta ai sensi degli articoli 185, 410, 411, 412-ter e 412-quater del codice di procedura civile.”

Proprio in quest’ultimo comma si richiama tutto l’articolo 411 del codice di procedura civile, quindi anche le rinunzie e le transazioni concluse in sede sindacale sono sottratte all’impugnazione, indipendentemente dal rispetto o meno delle formalità previste dal citato articolo del codice di rito (deposito presso la Direzione Territoriale del Lavoro e presso la competente Cancelleria del Tribunale) che costituiscono adempimenti successivi estranei rispetto all’essenza negoziale della conciliazione, diretti rispettivamente a dare autenticità all’atto ed a conferire efficacia esecutiva al verbale; in tal senso, ex multis, si rammentano le Sentenze di Cassazione n. 9241 del 30/08/1991 e la successiva n. 4205 del 23/04/1998.

Conseguenza di ciò è che la completa transazione della controversia mediante processo verbale di conciliazione in sede sindacale, reso esecutivo dal Tribunale, determina, qualora intervenuta dopo la proposizione del ricorso per Cassazione, il venire meno dell’interesse delle parti alla prosecuzione del giudizio di legittimità, con conseguente dichiarazione da parte della Suprema Corte di cessazione della materia del contendere.

Ritengo opportuno e utile segnalare una curiosa, ma non da escludere, fattispecie in proposito risolta da una Sentenza di Cassazione risalente al 1987 (la n. 3401): la conciliazione in sede sindacale, secondo le modalità di cui all’articolo 411 del codice di procedura civile, di una contesa (già in atto o non ancora formalizzata in sede giudiziale) relativa a diritti nascenti dal rapporto di lavoro, può ben prevedere la rinuncia del lavoratore alla già maturata indennità sostitutiva del preavviso a fronte dell’offerta, da parte del datore di lavoro, della prestazione quale una nuova occupa- zione di un soggetto estraneo al rapporto.

* Odcec Reggio Emilia

 

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