La codatorialità nelle reti d’impresa in materia di lavoro: problemi e possibili rimedi
di Filippo Mengucci *
Il legislatore con il contratto di rete di cui al decreto legge 76/2013, convertito in legge 99/2013, ha collocato con un “frammento normativo” la disciplina della codatorialità nel più ampio panorama del diritto del lavoro, senza affrontare compiutamente il problema (o la necessità) e dare conseguente certezza agli operatori sulle concrete ed effettive modalità di utilizzo delle nuove regole. Quando ha riconosciuto l’utilizzazione condivisa della prestazione lavorativa del prestato- re subordinato, il legislatore – al pari di quanto già fatto in altre esperienze e realtà europee – ha superato alcune rigide disposizioni ammettendo così anche la possi- bile assunzione congiunta da parte di più datori di lavoro (nota bene per ora solo se imprenditori operanti nel settore agri- colo) e sdoganando in via definitiva il c.d. distacco di personale ad interesse automatico presunto, nell’ambito dei programmi di rete e delle regole convenzionali dei c.d. “disciplinari di ingaggio” delle risorse umane.
Il mercato ha accolto dapprima favorevolmente le novità legislative in materia di flessibilità per imprese aggregate, che hanno “scardinato” il dogma dell’unicità del datore di lavoro, ma poi ha preso atto del- le difficoltà ad utilizzarle, data la presenza di una disciplina legale piuttosto scarna e visti i pochissimi riferimenti a documenti chiari di prassi amministrativa. I contributi giuridici sull’argomento, come sempre accade, non sono mancati. Quelli tecnici, purtroppo, sono quasi del tutto assenti.
Le imprese della rete si muovono ancora oggi, a distanza di diversi anni, in uno scenario incerto che riprende una logica binaria che prevede la scelta tra due diversi modelli e/o forme giuridiche: il modello contrattuale puro (anche detto rete contratto) e il modello a soggettività giuridica (anche detto rete soggetto). Dalla nascita di questi modelli ha preso avvio tra gli interpreti un’attenta riflessione sui temi collegati alle problematiche lavoristiche, cercando di capire la portata epocale dell’iniziativa legislativa, le irrazionalità di applicazione pratica e le ambiguità rispetto al passaggio da una flessibilità legale ad una flessibilità convenzionale; fenomeni questi ad alta rilevanza sociale ed argomenti certamente centrali per il diritto del lavoro e per il diritto della previdenza ed assistenza sociale. I contributi che ho raccolto sull’argomento sono i più disparati. Alcuni validi, alcuni inutili, altri talmente generici da non essere di alcuna utilità. Non tutti gli interpreti hanno colto le predette novità con favore e, forse anche per questo, hanno offerto una difforme lettura puntuale e sistematica dei nuovi istituti ma pur sempre collocata su percorsi già “battuti” dalla dottrina e dalla giurisprudenza e, quindi, condizionata da veri e propri filtri concettuali, a volte con suggestive proiezioni delle conseguenti implicazioni giuridiche. Ciò che non convince, allo stato, è purtroppo l’incertezza della piena legittimazione all’impiego dello strumento della codatorialità, che consente un utilizzo flessibile della manodopera nell’ambito delle attività comuni della rete di impresa, superando il rapporto duale datore-lavoratore sino ad oggi percepito dalla stragrande maggioranza degli addetti ai lavori quale regola immodificabile.
La scarsa conoscenza del fenomeno, anche da parte dei giudici, la diffidenza nell’applicazione pratica al caso concreto, la difficoltà di capirne gli effetti e le implicazioni sul piano giuslavoristico, previdenziale ed assistenziale, non ne hanno consentito, purtroppo, una concreta diffusione. An- che i colleghi con i quali mi sono confrontato fino ad oggi sono rimasti scettici nella esistenza di tale istituto legale.
Per stare al passo con le regole degli altri paesi europei, il nostro legislatore ha introdotto una disposizione a favore del c.d. mercato interno ma poi si è “dimenticato” di definirla in tutta la sua portata. Il fatto che ancora si discuta sulla portata di un solo (e alquanto isolato) intervento di prassi del Ministero del lavoro (circolare MLPS n.35/2013 per le istruzioni in sede di ispezione sui contratti di rete) antitetico rispetto ad alcuni indirizzi precedenti, è sintomatico di quanta divisione di opinioni ci sia ancora sull’argomento, per chi deve progettare e realizzare la rete, per chi la deve utilizzare, per chi la deve controllare e forse, anche per chi – prima o poi – dovrà giudicare i fatti dalla stessa rete scaturiti. Come dire, tutta la filiera dei player. Ciò che stupisce, quindi, è per quale motivo non si sia proceduto normativamente sul postulato essenziale sotteso al riconosci- mento definitivo del rapporto di lavoro tra più soggetti e non più, esclusivamente, su quello noto a tutti da anni che è di tipo “duale”.
Il codice non definisce il datore di lavoro, parimenti non c’è una norma di rango europeo che si spinga in questa direzione. Ma in ogni esperienza degli altri paesi membri esiste da anni la codatorialità (la Francia, l’Inghilterra, la Spagna tanto per citare chi ne sa più di noi e che la pratica da molto più tempo).
Tra autori che male hanno tollerato la novità e quelli che invece hanno esaltato la portata della scelta del legislatore nazionale di rimettere al regime convenzionale di regole che le parti impegnate nella rete si sono date, la fattispecie assume ancora una volta, nonostante i citati connotati di incertezza, un notevole interesse per la flessibilizzazione della figura del datore di lavoro; quindi come prospettiva per suddividere contrattualmente (e non legalmente) le modalità di esercizio del potere direttivo da parte delle diverse imprese interessate (co-datori), per la individua- zione del contratto collettivo applicabile ai lavoratori inseriti nel perimetro della rete (lavoratori ingaggiati) ed a quelli assunti da tutti per la rete (lavoratori co-assunti) oppure, semplicemente, per coloro che sono distaccati per l’esecuzione del programma comune convenuto, sia esso nazionale, aziendale, o territoriale.
Si tratta senza dubbio di una sfida ancora aperta per il diritto del lavoro nazionale che, oggi più che in passato, è chiamato a dare ri- sposte e regolare schemi giuridici importati come detto da altre esperienze europee che mettono a dura prova la tenuta delle sue acquisizioni fondamentali. Tra queste, proprio quel sistema duale che ha ricostruito sino ad oggi il contratto di lavoro quale accordo prettamente bilaterale. La presupposizione del rapporto riconducibile a sole due parti (datore e prestatore) costringe oggi, alla luce del riconoscimento legislativo, a vedere sotto altra veste le operazioni di aggregazione fisiologica tra datori di lavoro (imprese), in funzione di uno scopo sinergico e pluralistico che ampliano, quindi, sul fronte contrattuale il beneficiario della prestazione di lavoro e consentono, al contempo, di dismettere e/o declinare diversamente dal modello legale (quindi su base meramente convenzionale) il potere direttivo, il potere organizzativo, il potere gerarchico e, conseguentemente, le responsabilità solidali che ne scaturiscono sul piano della gestione del rapporto di lavoro.
Atteso che si è a lungo vagheggiato (la dottrina giuslavoristica) nella ricerca della figura del “vero datore di lavoro” nell’ambito dei nuovi fenomeni aggregativi con comunione di scopo (come anche avviene per i gruppi di imprese oramai definiti dalla giurisprudenza quale unico datore di lavoro ove unico centro effettivo di imputazione di interesse datoriale) il problema che ora si pone è anche come una codatorialità “non genuina” possa assurgere a strumento di sistema per aggirare le ricadute in termini di responsabilità datoriale (responsabilità convenzionale e/o limitata rispetto a responsabilità solidale, legale, come avviene nel caso della somministrazione e/o dell’appalto).
Tutte le modalità di gestione del personale nella rete, si pongono, quindi, in una prospettiva di vantaggio o di svantaggio, non solo per le imprese coinvolte, ma anche per i lavoratori delle medesime che sono impiegati per lo scopo comune. Il dubbio che affligge gli operatori, di fronte alle prime ovvie incertezze e diffidenze nel proporre e adottare le regole previste per le reti di impresa, è proprio come dare certezza di un uso corretto dell’istituto e non sconfinare nel c.d. “abuso di diritto” o peggio nel “contratto in frode alla legge” per scardinare il sistema di regole ferree che disciplinano, da sempre, il nostro diritto del lavoro che, per (oramai superata) definizione rimarrebbe “asimmetrico”. Quando le parti in gioco non sono paritetiche, il sistema di regole legali evita che il sistema di regole convenzionali possa ledere la parte contrattualmente più debole. Ciò che meraviglia, quindi, nel caso che ci occupa, è come regolamentare in maniera bilanciata le diverse clausole che potrebbero disciplinare la c.d “flessibilità buona” a discapito di quella c.d. “cattiva”.
La rete, per via delle possibili peculiarità di fonte pattizia (quanto a regole di funzionamento, regole del contratto, regole di attuazione del programma, regole di ingaggio, ecc.) si presta ad una possibile utilizzazione quasi ai limiti del lecito. Il che, in una lettura ambiziosa del fenomeno, pare porti a dire che il Legislatore che ha negato per anni alcune evidenze oggi, invece, le ammette e permette a pieno ti- tolo solo e se collocate sotto il “cappello” della rete. Anche se non dice come effettivamente poterle gestire nella pratica quotidiana. Come a dire, in ottica liberista, un precetto generico per lasciare al mercato la sua effettiva regolamentazione. Poi magari, tirare le somme e pensare ai limiti e ai paletti. Del resto in Italia è noto che fatta la regola si prova sempre ad aggirarla. In questo caso, non c’è nulla da aggirare. Ma solo la “terra di nessuno” da esplorare…
La nuova fattispecie è ovvio che ora sia classificabile come lo strumento legale che permette il superamento dei vecchi limiti. La forza dello strumento, che dagli albori in materia di diritto del lavoro non è stato normato al pari di quanto, invece, avvenuto nel campo civile e commerciale (da cui trae sostentamento con regole definite e con normativa di senso compiuto e prassi anche in campo tributario), induce l’operatore lavorista ad un interessante approccio tipo “laboratorio”, in pratica un work in progress… Gli addetti ai lavori (datori di lavoro, lavoratori, professionisti, ispettori del lavoro, ecc.), si sono quindi avventurati nella gestione delle reti di impresa al buio. Senza una legislazione specifica, senza documenti di prassi amministrativa completi, senza giurisprudenza di riferimento (né di merito né di legittimità), senza quindi riferimenti certi e precedenti noti, in una prospettiva di estensione – soggettiva e spaziale – della impresa nella rete e di condivisione delle risorse umane nell’ambito delle scelte a livello aziendale in senso “partecipativo” datoriale. Nella scarna e poco lineare disciplina lavoristica sulla rete di imprese si avverte, quindi, tra le molteplici lacune, l’esigenza di una regolamentazione di supporto che possa essere di reciproco aiuto nella individuazione delle “reti buone” rispetto alle “reti cattive”. La regolamentazione, ove assente, potrebbe medio tempore ben essere sostituita da una buona prassi. Di questo sono convinto. La rete può essere, infatti, un’ottima opportunità ma anche una trappola infernale. Dipende da chi e da come è congeniata ed utilizzata. La rete soggetto evidenzia poco appeal perché costringe ad una serie di adempimenti al pari di quanto già previsto in campo civile, commerciale, tributario e del lavoro per le società commerciali ed i consorzi a rilevanza esterna. La rete contratto è, invece, quella più praticata perché è snella, veloce da costruire, da adattare, da modificare, da estinguere. Come dire, è un contratto e come tale si adatta come “abito su misura” alle esigenze del momento dell’imprenditore, sia esso individuale che collettivo. Purtroppo con un grosso limite per chi non è imprenditore, ovvero per i professionisti; come se le necessità di aggregazione nel campo del lavoro autonomo siano totalmente difformi da quelle imprenditoriali. Mai, di questi tempi, una miopia più grande soprattutto laddove il lavoro autonomo, in ambito europeo, viene sempre più spesso letto al pari dell’impresa!
Sotto il profilo processuale, la mancanza di regole di riferimento per la rete, ed in particolare per quella leggera (rete contratto) può indurre il giudice ad assumere alla base delle sue decisioni altre regole di individuazione del vero datore di lavoro (come nel caso della giurisprudenza che riguarda la codatorialità nei gruppi societari, di quella della intermediazione ed interposizione, oppure di quella di funzionamento e di responsabilità riferite ad altri istituti analoghi o affini quali somministrazione e appalto).
Anche il sistema della fonti contrattuali nell’ambito della rete desta qualche perplessità; tra accordi aziendali di secondo livello e contrattazione di prossimità il dubbio degli operatori è proprio quello di adattare alla struttura sovrastante della rete di impresa (struttura si ripete di natura contrattuale/giuridica commerciale) una contrattazione di riferimento che possa ricalcare il più possibile le effettive esigenze dei retisti. Non può ignorarsi il fatto che il contratto di rete sia stato introdotto dall’art.3, commi 4 ter e 4 quinquies del decreto legge 5/2009, convertito in legge 33/2009, appositamente intitolato “misure urgenti a sostegno dei settori industriali e in crisi”. Ergo sarebbe preferibile, soprattutto in una ottica derogatoria come pare sia quella ammessa dal legislatore con la specifica normativa delle reti e della codatorialità, intervenire con la contrattazione di prossimità ex art. 8 legge 148/2011 in quanto, in qualche modo, anch’essa ha stravolto il rapporto tra le fonti del diritto del lavoro, così come conosciuto dalla nostra generazione. Ma sempre per motivazioni legate a contingenze del mercato e/o particolari avvio di processi produttivi (crisi azienda, nuove iniziative, ecc.) ma mai per esigenze definitivamente strutturali e/o a regime.
Dovendo valutare il miglior strumento da abbinare alla crescita della rete alla luce delle nuove relazioni industriali, non v’è dubbio che un contratto di prossimità valido ed efficace erga omnes sia funzionale al migliore raggiungimento dello scopo della rete. Scopo, questo come detto, sempre indirizzato ad un orizzonte temporale ben definito (anche di medio/lungo periodo) e mai indefinito. Ciò proprio a caratterizzare la differenza dell’essenza dello strumento rispetto ad altre forme aggregative di impresa stabili (non temporanee) già meglio regolate dal codice sotto il profilo societario e dei consorzi.
La prossimità, per il suo carattere temporale eccezionale e non ricorrente, assolve (a mio modesto avviso) allo scopo egregiamente e consente il contemperamento delle regole della flessibilità convenzionale soprattutto dove trattasi di rete contratto. Ovvero rete che non è soggetto giuridico autonomo e, quindi, centro distinto di imputazione di interessi rispetto agli interessi manifesti (totali o parziali) dei singoli componenti retisti che ne fanno parte.
Sotto il profilo delle regole (siano esse afferenti alla rete contratto, al suo programma ovvero alle modalità di ingaggio del suo personale) l’operatore accorto non potrà, poi, non cogliere appieno le possibilità offerte dall’istituto della certificazione facoltativa previsto dall’art.75 del d.lgs. 276/2003, così come novellato dall’art.30, comma 4, legge 183/2010. Tale istituto, promuovendo le buone prassi tese a riconoscere la genuinità della volontà delle parti in campo lavoristico, consente di “ottenere la certificazione dei contratti in cui sia dedotta, direttamente o indirettamente, una prestazione di lavoro….(…)”. Avuto riguardo alle problematiche sopra esposte ed alle perplessità espresse al riguardo, nulla osta a che si proceda a certificare sia il contratto di rete (soprattutto se leggera), sia il disciplinare di ingaggio del personale della rete, sia l’accordo che definisce le modalità di distacco infrarete, sia anche il contratto individuale di lavoro tra i retisti (sia ove codatori che coassuntori del rapporto di lavoro) ed il prestatore di lavoro la cui prestazione è resa a beneficio di una pluralità di soggetti tutti abilitati dalla norma di legge quali co-datori. Ovvero collettivamente quale una parte del contratto. La certificabilità del contratto di rete e delle sue regole (ingaggio- codatorialità-distacco-coassunzione) è una realtà operativa. La Commissione di Certificazione dei contratti di Lavoro e di Appalto dell’U di Tor Vergata è all’avanguardia per procedure amministrative di certifica- zione di tali accordi (rectius contratti) dove sia dedotta la prestazione di uno o più prestatori. Nel corso dell’anno 2015 sono state concluse positivamente molteplici procedure a vantaggio di reti leggere, sia di filiera che trasversali. Ovvero con peculiarità multi aziendali, multidisciplinari e con dislocazione e/o articolazione territoriale anche pluriregionale e/o nazionale. Parimenti non bisogna dimenticare che possono formare oggetto di certificazione i contratti individuali di lavoro o singole clausole del contratto di lavoro; ad esempio la clausola specifica della codatorialità, con il rinvio alle previe regole di ingaggio certificate, e/o il possibile consenso espresso preventivo ex 1407 c.c. del lavoratore alla apertura del beneficiario della prestazione di lavoro anche a nuovi co-datori retisti. Con la certificazione del contratto la possibile “codatorialità genu ina” fa ingresso nel nostro ordinamento con regole negoziali bilanciate, con una effettiva indagine dell’effettiva autonomia delle parti rimessa ad un organismo terzo (super partes) finalizzata alla migliore rego lazione e regolamentazione delle reciproche posizioni contrattuali; il tutto, quindi, con garanzia della delineazione anche di una responsabilità convenzionale di tipo fideiussorio (ove non attiva quella legale prevista solo per le coassunzioni in agri- coltura) non preclusiva dei diritti che derivano dall’obbligazione del prestatore di lavoro. Ciò quindi, in maniera certamente rafforzata e giammai lesiva delle garanzie minime previste dall’ordinamento, anche avuto riguardo al fattore “interesse” dell’eventuale distacco infra-rete che, a detta del Ministero del lavoro nella circolare richiamata (n.35/2013), sorgerebbe” in automatico” per il distaccante (e non è chiaro se anche per il distaccatario che come lui ne ha analogo interesse) e verrebbe verificato in sede ispettiva quale presunzione iuris et de iure per il solo fatto che esiste a monte un accordo di rete. Ma se la rete a monte non è una rete genuina, va da sé che anche l’interesse precipuo al distacco non lo sarebbe più. Quindi la certificazione del programma di rete che prevede anche l’utilizzo del distacco interno al perimetro della rete è per gli operatori l’unica strada che non apre ad ulteriori problematiche in sede giudiziale rispetto al concreto interesse richiamato nello scopo della rete. Si tratta, quindi, di una ulteriore accortezza dell’operatore che assiste le parti nella stipula degli accordi di rete e del disciplinare di ingaggio del personale di rete che consente, a priori, una verifica sostanziale e non eminentemente meramente documentale, sulla genuinità e fondatezza dell’interesse rispetto a quanto lasciato intendere dalla circolare del Ministero del lavoro sopra citata.
Tra gli ulteriori vantaggi, infine, si segnala anche la possibilità di definire le vie obbligatorie per conciliare le possibili controversie tra le parti (retisti) anche ove la competenza giurisdizionale, nell’ipotesi di distacco “transfrontaliero”, coinvolgesse nella rete imprese retiste che hanno la sede legale o operativa al di fuori dei confini nazionali e che hanno interesse ad utilizzare il personale con la mobilità infrarete.
Può essere, infatti, convenuto che il datore di lavoro domiciliato in uno stato membro diverso dall’Italia che partecipa alla rete, possa essere convenuto, oltre che davanti alla autorità giurisdizionale dello stato in cui è domiciliato (in ossequio alla regola generale ben nota di cui all’art.19 del Reg. CE 44/2001 – ora nuovo art.21– par 1 – Reg UE 1215/2012), anche in un altro stato membro, ma solo davanti alla autorità giurisdizionale del luogo ove il lavoratore svolge oppure ha svolto abitualmente la propria attività oppure dove ha la sede l’impresa che l’ha assunto. Que- sto consentirebbe di semplificare anche l’ingresso nella rete di soggetti esteri e, pur in presenza di una responsabilità di tipo convenzionale, evitare che gli stessi si possano defilare a posteriori scegliendo la strada della giurisdizione propria, rispetto a quella nazionale degli altri retisti, e quindi con maggiore garanzia di applicabilità degli istituti richiamati.
Atteso, infine, che la certificazione è un provvedimento amministrativo che reintroduce l’obbligo della conciliazione obbligatoria in caso di controversie, si valuti in ottica deflattiva del contenzioso il ruolo di terzietà della Commissione di Certificazione e gli effetti anche nei confronti dei terzi diversi dalle parti del contratto. La certificazione, quale provvedimento, può esplicare i suoi effetti sia sotto il profilo civilistico, sia amministrativo, sia fiscale che previdenziale; va da sé che anche le ulteriori problematiche di tipo tributario previdenziale e assistenziale troverebbero, grazie alla certificazione, una utile e chiara collocazione nell’ambito degli accordi di rete.
Il fatto che a fronte di reti di tipo trasversale (ovvero non di filiera e quindi multidisciplinari o multiregionali) sarebbe difficile stabilire il settore proprio di tipo previdenziale e assicurativo da attribuire alle attività della rete, con le specifiche tecniche del Ministero dell’economia e delle finanze che consentono anche alla rete leggera di essere dotata di un proprio codice fiscale (senza per questo essere un soggetto autonomo a tutti gli effetti), si potrebbe definire in maniera univoca (come già per esempio avviene nel caso dei condomini) il corretto inquadramento con un proprio codice statistico contributivo unitario CSC INPS (distinto dai singoli codici dei retisti partecipanti) ed un rischio assicurato per l’INAIL riportabile ad una specifica Pat aziendale. In questo modo, nelle reti contratto, sia nel caso di lavoratori coassunti (da imprese agricole e non agricole ove possibile), lavoratori distaccati nel perimetro di rete, sia nel caso di lavoratori co-gestiti in codatorialità (a differenza di quanto invece più semplicemente avviene per coloro che fanno parte delle reti soggetto), si potrebbero gestire gli adempimenti documentali del persona- le (LUL e Payroll) con procedure uniche ed inequivocabili per tutti i partecipanti alla rete anche in ottica di una corretta individuazione della normativa welfare di riferimenti contrattuale.
Il quadro sin qui offerto degli aspetti critici di natura giuslavoristica, previdenziale, assistenziale e da ultimo, anche quelli amministrativi per la corretta gestione degli adempimenti del ciclo del personale della rete, rende evidente la tensione tra l’aspirazione del legislatore verso soluzioni
pensate per la crescita nell’ottica dell’aggregazione di più imprese in visione di continuità e l’assenza di un progetto normativo di ampio respiro che sia alla base del nuovo istituto regolatore della fattispecie.
La “latitanza” sia del legislatore sia dei ministeri competenti, assieme alle resistenze culturali degli operatori, che non hanno ancora preso dimestichezza con il nuovo istituto, potrebbero determinare problematiche processuali, di quelle che danno del “filo da torcere” ai giudici chiamati a risolvere questioni collocate, prima facie, nella terra di nessuno. Una disciplina lavoristica, previdenziale ed assistenziale di senso compiuto accompagnata da istruzioni fornite da una prassi amministrativa più attenta potrebbero risolvere de iure condendo il problema alla fonte, ponendosi in maniera idonea al vero e costante sviluppo di tali forme aggregative di imprese. Il fatto poi che le singole esperienze degli operatori rimangono, ove praticate, nel totale silenzio e che nulla si sappia dei successi e/o degli insuccessi dello strumento e della sua effettiva tenuta in sede giudiziale, dovrebbe spronare i professionisti – come i Commercialisti del lavoro – a divulgare le casistiche di studio, sia positive che negative, approcciando in maniera univoca alle buone prassi di gestione delle reti, soprattutto di quelle “leggere” aventi natura, come detto contrattuale, e quindi libere da schemi e/o modelli predeterminati o predeterminabili a priori. La mission di chi come me le studia da anni, le pratica e le gestisce e che ora ne scrive, è proprio quel- la di mettere a disposizione della categoria il bagaglio delle poche (ma utili) esperienza fatte sul campo; sia come consulente di aziende, sia come consulente dell’area lavoro, sia anche come certificatore componente e membro effettivo della Commissione di Certificazione dell’Università di Tor Vergata di Roma.
* Odcec Roma
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