Rassegna di giurisprudenza
Bernardina Calafiori*
Cass. Civ. Sez. lav., 15 maggio 2015, n. 10037
Mobbing – Azioni persecutorie e condotta mobbizzante posta in essere da un superiore gerarchico – Inerzia del datore di lavoro – Responsabilità per colpa – Responsabilità ex art. 2049 c.c.
La circostanza che la condotta di mobbing provenga da altro dipendente in posizione di supremazia gerarchica rispetto alla vittima, non vale ad escludere la responsabilità del datore di lavoro su cui incombono gli obblighi di cui all’art. 2049 c.c., ove questo sia rimasto colpevolmente inerte alla rimozione del fatto lesivo e la durata e le modalità con cui è stata posta in essere la condotta mobbizzante sono tali da far ritenere la sua conoscenza anche da parte del datore di lavoro, che l’ha comunque tollerata.
La fattispecie in esame riguardava una lavoratrice che aveva ottenuto in esito al giudizio di primo grado, con decisione confermata in appello, la condanna del proprio datore di lavoro al risarcimento del danno alla salute e alla professionalità quale conseguenza di una condotta mobbizzante. In particolare era stato accertato che la condotta lesiva era stata posta in essere da un superiore gerarchico della lavoratrice con la “sottrazione delle mansioni, la conseguente emarginazione, lo spostamento senza plausibili ragioni da un ufficio all’altro, l’umiliazione di essere subordinati a quello che prima era un proprio sottoposto, l’assegnazione ad un ufficio aperto al pubblico senza possibilità di poter lavorare, così rendendo ancor più cocente la propria umiliazione”.
Interessante è notare che nella vicenda era stata valorizzata la perizia, eseguita in sede di giudizio penale, dalla quale risultava “la presenza contestuale di tutti e sette i parametri tassativi di riconoscimento del mobbing che sono l’ambiente, la durata, la frequenza, il tipo di azioni ostili, il dislivello tra gli antagonisti, l’andamento secondo fasi successive, l’intento persecutorio”.
La Corte di Cassazione ha confermato la decisione dei giudici di merito, respingendo in particolare, tra le numerose altre, la censura relativa al preteso difetto di motivazione in merito alla responsabilità diretta del datore di lavoro, a fronte di un condotta posta in essere da un superiore gerarchico della lavoratrice mobbizzata.
Nel confermare la sussistenza nella specie di un’ipotesi di responsabilità per mobbing la Corte richiama anche l’art. 2049 c.c., relativo alla responsabilità di “padroni e committenti” per fatti illeciti commessi da “commessi e domestici” (e quindi anche lavoratori dipendenti) nell’esercizio delle loro incombenze. Come noto, si tratta di una forma di responsabilità particolarmente rigorosa, e che spesso, nell’ambito dei doveri di sicurezza gravanti sul datore di lavoro, finisce per declinare verso una forma di responsabilità oggettiva “per fatto altrui”.
A tale ultimo proposito interessante è invece notare come la Corte, nella sentenza in commento, abbia confermato la responsabilità del datore di lavoro anche sulla base della ravvisata “colpa” del medesimo e sulla base della inevitabile conoscenza di fatti gravi e reiterati posti in essere da un superiore nei confronti del mobbizzato. Fatti che per la loro natura e la loro durata non potevano non essere noti anche al datore di lavoro e non erano stati impediti.
Con la sentenza in esame la Suprema Corte finisce per confermare il principio consolidato in base al quale i doveri di protezione ex art. 2087 c.c. vanno letti (e riempiti di contenuto) in combinato disposto con l’art. 2049 c.c., essendo preciso dovere del datore di lavoro porre in essere tutte le misure idonee a prevenire un danno alla salute sul luogo di lavoro, garantendo un ambiente di lavoro “salubre” in senso lato ed impedendo ogni condotta lesiva che possa essere riconducibile anche ad atteggiamenti e comportamenti di colleghi, superiori e, in generale, di terzi.
Cass. Civ. Sez. lav., 12 marzo 2015, n. 4992
Infortuni e malattie professionali – Eziologia professionale – Fattori concausali
ed extra lavorativi – Responsabilità del datore di lavoro – Sussistenza – Principio di equivalenza delle condizioni ex art. 41 c.p. – Applicazione
L’esistenza di fattori concausali extra lavorativi non rilevano per escludere il valore causale accertato dei fatti lavorativi, atteso che è del tutto consolidato il principio secondo il quale, in materia di infortuni sul lavoro e malattie professionali, trova applicazione la regola contenuta nell’art. 41 c.p., per cui il rapporto causale tra evento e danno è governato dal principio dell’equivalenza delle condizioni, secondo il quale va riconosciuta l’efficienza causale ad ogni antecedente che abbia contribuito, anche in maniera indiretta e remota, alla produzione dell’evento, salvo che il nesso eziologico sia interrotto dalla sopravvenienza di un fattore sufficiente da solo a produrre l’evento, tale da far degradare le cause antecedenti a semplici occasioni.
Nel caso in esame i giudici di merito aveva- no accertato “la progressiva emarginazione della lavoratrice dal ruolo lavorativo ricoperto, la privazione di mansioni e di strumenti di lavoro e la perdita di credibilità della lavoratrice (quali conseguenze dei contrasti con la titolare della azienda…), nonché un uso strumentale e persecutorio del potere disciplinare datoriale”; veniva accertato altresì che “dalla detta condotta datoriale era derivato uno stato di malattia della lavoratrice”.
Avverso tale decisione il datore di lavoro proponeva ricorso per Cassazione, deducendo vizio di motivazione per la “mancata valutazione nell’eziologia del danno di fattori causali concomitanti ed extra lavorativi”.
La Corte di Cassazione ha respinto il ricorso e confermato la decisione dei giudici di merito, applicando il principio espresso nella massima. La Corte ha ribadito che in materia di infortuni e malattie professionali, in presenza di un fattore eziologico riconducibile al rapporto di lavoro, la presenza di concause o di concomitanti fattori di natura extra lavorativa non vale, di per sé, ad escludere la responsabilità datoriale. Ciò in quanto in tale materia trova costante applicazione l’articolo 41 c.p. che, come noto, stabilisce che “il concorso di cause preesistenti o simultanee o sopravvenute, anche se indipendenti dall’azione od omissione del colpevole, non esclude il rapporto di causalità fra l’azione od omissione e l’evento”. Si tratta del cd. principio di equivalenza delle condizioni, in base al quale, in concomitanza di un nesso eziologico con il rapporto e l’ambiente di lavoro, la presenza di un fattore “causale” extra lavorativo non esclude la responsabilità del datore di lavoro. E’ da escludere invece il nesso eziologico con la condotta del datore di lavoro (e la responsabilità di quest’ultimo) solo quando il fattore estraneo all’attività lavorativa sia di per sé solo sufficiente a causare l’infermità, facendo degradare gli altri eventi connessi all’attività lavorativa a semplici occasioni di danno.
Le motivazioni della sentenza richiamano due recenti pronunce conformi sul punto: Cass. 11 novembre 2014 n. 23990 e Cass. 19 giugno 2014 n. 13954 (fattispecie nella quale è stata confermata la responsabilità del dato- re di lavoro e l’eziologia professionale della patologia denunciata, pur sulla base di una consulenza tecnica di ufficio che aveva fatto riferimento solo ad una “possibile” imputabilità dell’infermità all’attività lavorativa, ciò in quanto “per il principio dell’equivalenza delle concause dell’evento morbigeno è sufficiente la connessione, nel determinismo causale, con il servizio espletato, affinché possa essere riconosciuta la causa di servizio”).
*31Socio fondatore dello Studio Legale Daverio & Florio
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