Rassegna di giurisprudenza: Tre pronunce della cassazione (Febbraio- Marzo 2017)

a cura di Bernardina Calafiori* 

1 – Cass. civ. sez. un., 01 febbraio 2017, n. 2612 

“La Cassa Nazionale di Previdenza e Assistenza a favore dei Dottori Commercialisti è titolare del potere di accertare, sia all’atto dell’iscrizione ad essa, sia periodicamente, e comunque prima dell’erogazione di qualsiasi trattamento previdenziale, ed a tale limitato fine, che l’esercizio della corrispondente professione non sia stato svolto nelle situazioni di incompatibilità di cui all’art. 3 del D.p.R. n 1067 del 1953 (ora art. 4 del d.lgs. n 139 del 2005), ancorché quest’ultima non sia stata accertata dal Consiglio dell’Ordine competente. In particolare, detto autonomo potere di accertamento sussiste nel momento della verifica dei presupposti per l’erogazione del trattamento previdenziale, al quale si associa naturalmente la cessazione dell’iscrizione all’Ordine, non potendosi ravvisare ostacolo alcuno nella carenza di una procedura specifica per l’esercizio di esso, risultando le garanzie procedimentali suscettibili di essere in ogni caso assicurate dall’osservanza delle norme generali di cui alla l. n. 241 del 1990.” 

Un commercialista, maturati i requisiti, richiedeva alla Cassa di Previdenza dell’Ordine dei Commercialisti l’erogazione della prestazione previdenziale. La Cassa rigettava però la richiesta eccependo l’annullamento di quindici anni di iscrizione, poiché il commercialista avrebbe svolto la professione in regime di incompatibilità. Il professionista impugnava la decisione della Cassa di Previdenza, affermando che l’Ente non aveva il potere e la facoltà di accertare la situazione di presunta incompatibilità ma solo quello di erogare le prestazioni previdenziali. La Corte d’Appello accoglieva viceversa il ricorso della Cassa e statuiva la legittimità degli accertamenti operati dalla Cassa di Previdenza e quindi del provvedimento di rifiuto di erogazione della prestazione pensionistica.

La questione è stata rimessa alle Sezioni Unite della Corte di Cassazione che rilevavano un contrasto giurisprudenziale. Tale contrasto verteva principalmente sulla natura (e la ripartizione) dei poteri rispettivamente della Cassa di Previdenza e degli Ordini dei Commercialisti, ed in particolare quello di verificare l’esistenza di cause di incompatibilità, che risultano ostative al diritto alla prestazione previdenziale. Non essendo previsto dalla legge uno specifico onere di accertamento in tal senso, da parte della Cassa, la Corte di Cassazione ha desunto la legittimità dell’operato dell’Ente Previdenziale da una serie di indici interpretativi. In primo luogo l’art. 22, comma 3, legge 29 gennaio 1986, n. 1 prevede il potere per la Cassa di accertare la sussistenza del requisito dell’“esercizio della professione”, in ogni caso prima di erogare i trattamenti previdenziali e assistenziali.

A tale fine, la Cassa ha anche la facoltà di richiedere documentazione inerente l’esercizio continuativo della professione. Ad avviso della Corte quindi sarebbe irrazionale che la verifica del suddetto requisito, che deve quindi essere anche legittimo e non solo formale, quindi non inficiato da cause di incompatibilità.

Infine secondo la Corte non rileva che “con riferimento all’accertamento di situazioni di incompatibilità la disciplina della Cassa non prevede l’osservanza di una procedura per l’accertamento e la sua declaratoria al contrario di quanto avviene per l’Ordine per il quale sono previste specifiche garanzie procedimentali a favore dell’interessato, tra cui l’audizione dello stesso e la possibilità di proporre ricorso contro la decisione assunta. Tali garanzie risultano adeguatamente tutelate dall’osservanza delle norme generali di cui alla L. n. 241 del 1990 che disciplina il procedimento amministrativo e riconosce il diritto di prendere visione degli atti del procedimento, di presentare memorie scritte e documenti, che l’amministrazione ha l’obbligo di valutare ove siano pertinenti all’oggetto del procedimento, di dare notizia dell’avvio del procedimento mediante comunicazione personale, l’obbligo di motivazione del provvedimento assunto” Pertanto la Corte ha enunciato il seguente principio di diritto: “la Cassa Nazionale di Previdenza e Assistenza a favore dei Dottori Commercialisti è titolare del potere di accertare, sia all’atto dell’iscrizione alla Cassa, sia periodicamente e comunque prima dell’erogazione di qualsiasi trattamento previdenziale, che l’esercizio della professione non sia stato svolto nelle situazioni di incompatibilità di cui al D.P.R. n. 1067 del 1953, art. 3, ora D.Lgs. n. 139 del 2005, art. 4, ancorché tale incompatibilità non sia stata accertata dal Consiglio dell’Ordine competente”.

2 – Cass. civ. sez. lav. 13 marzo 2017, n. 6405

Lavoro Autonomo – Lavoro Subordinato – Distinzione – Collaborazione a progetto – Evasione contributiva – Omissione contributiva – fattispecie costitutiva 

“In tema di obbligazioni contributive nei confronti delle gestioni previdenziali ed assistenziali, l’accertamento dell’esistenza tra le parti di un contratto di lavoro subordinato in luogo di un lavoro a progetto per la mancanza di uno specifico progetto, benché regolarmente denunciato e registrato, concretizza l’ipotesi di “evasione contributiva” e non la meno grave fattispecie di “omissione contributiva” di cui alla lettera a) della medesima norma, dovendosi ritenere che la stipulazione di un contratto di lavoro a progetto privo dei requisiti prescritti dalla legge implichi occultamento dei rapporti o delle retribuzioni o di entrambi e fa presumere l’esistenza della volontà datoriale di realizzare tale occultamento allo specifico fine di non versare i contributi o i premi dovuti.” 

Secondo la sentenza in commento, se viene formalizzato un rapporto di collaborazione “coordinata e continuativa”, ma in realtà si tratta di un rapporto di “lavoro subordinato”, si realizza un caso di “evasione contributiva” e non di “omissione contributiva”. L’ “omissione contributiva” si realizza quando ricorrono le situazioni di cui all’art. 116, comma 8, lett. a) legge n. 388 del 23 dicembre 2000, e cioè: «8. I soggetti che non provvedono entro il termine stabilito al pagamento dei contributi o premi dovuti alle gestioni previdenziali ed assistenziali, ovvero vi provvedono in misura inferiore a quella dovuta, sono tenuti:

a) nel caso di mancato o ritardato pagamento di contributi o premi, il cui ammontare è rilevabile dalle denunce e/o registrazioni obbligatorie, al pagamento di una sanzione civile, in ragione d’anno, pari al tasso ufficiale di riferimento maggiorato di 5,5 punti; la sanzione civile non può essere superiore al 40 per cento dell’importo dei contributi o premi non corrisposti entro la scadenza di legge».

L’“evasione contributiva” si realizza, invece, quando ricorrono le situazioni di cui all’art. 116, comma 8, lett. b), e cioè: «in caso di evasione connessa a registrazioni o denunce obbligatorie omesse o non conformi al vero, cioè nel caso in cui il datore di lavoro, con l’intenzione specifica di non versare i contributi o premi, occulta rapporti di lavoro in essere ovvero le retribuzioni erogate, al pagamento di una sanzione civile […]».

A tale proposito (evasione) la Corte di Cassazione afferma che: «Il primo requisito sussiste non solo quando vi sia l’assoluta mancanza di un qualsivoglia elemento documentale che renda possibile l’accertamento della posizione lavorativa o delle retribuzioni, ma anche quando ricorra un’incompleta o non conforme al vero denuncia obbligatoria, attraverso la quale viene celata all’ente previdenziale (e, quindi, occultata) l’effettiva sussistenza dei presupposti fattuali dell’imposizione». La Corte di Cassazione poi conclude formulando il principio sopra anticipato, e cioè: «La questione va quindi risolta con l’affermazione del principio di diritto, secondo cui: “In tema di obbligazioni contributive nei confronti delle gestioni previdenziali ed assistenziali, l’accertamento dell’esistenza tra le parti di un contratto di lavoro subordinato in luogo di un lavoro a progetto per la mancanza di uno specifico progetto, benché regolarmente denunciato e registrato, concretizza l’ipotesi di “evasione contributiva” di cui alla L. n. 388 del 2000, art. 116, comma 8, lett. b), e non la meno grave fattispecie di “omissione contributiva” di cui alla lettera a) della medesima norma, dovendosi ritenere che la stipulazione di un contratto di lavoro a progetto privo dei requisiti prescritti dalla legge implichi occultamento dei rapporti o delle retribuzioni o di entrambi e fa presumere l’esistenza della volontà datoriale di realizzare tale occultamento allo specifico fine di non versare i contributi o i premi dovuti; conseguentemente, grava sul datore di lavoro inadempiente l’onere di provare la mancanza dell’intento fraudolento e, quindi, la sua buona fede, che non può tuttavia reputarsi assolto in ragione della avvenuta corretta annotazione dei dati omessi o infedelmente riportati nelle denunce sui libri di cui è obbligatoria la tenuta; in tale contesto spetta al giudice del merito accertare la sussistenza, ove dedotte, di circostanze fattuali atte a vincere la suddetta presunzione, con valutazione intangibile in sede di legittimità ove congruamente motivata»».

3 – Cass. civ. sez. lav. 30 marzo 2017, n. 8260 

“L’assunzione di un nuovo lavoratore nella medesima posizione soppressa nell’ambito di una procedura di mobilità, costituisce un raggiro del datore di lavoro qualificabile come un silenzio reticente ai danni del lavoratore licenziato per giustificato motivo oggettivo, nell’ambito della medesima procedura, per la soppressione della posizione in oggetto. Pertanto è annullabile per dolo omissivo rilevante ex art. 1439 c.c. il verbale di conciliazione con il quale il lavoratore ha accettato il licenziamento.” 

La sentenza in commento torna sul tema dell’annullabilità del verbale di conciliazione, ex art. 2113 del codice civile. Come noto tali accordi sono definitivi tra le parti, residuando soltanto le ipotesi generali di annullamento del contratto; vale dire errore determinante, dolo e violenza ai sensi degli artt. 1427 e ss. Del codice civile. Nel caso di specie le parti avevano sottoscritto il verbale dopo l’apertura della procedura di mobilità e dopo che, all’esito dell’accordo sindacale, la società (datrice di lavoro) aveva indicato tra le posizioni in esubero quella del lavoratore. Il lavoratore aveva quindi espressamente rinunciato ad ogni impugnazione del licenziamento, a fronte di un incentivo all’esodo versato dalla società. La circostanza che la società abbia assunto successivamente un altro lavoratore per la medesima posizione ricoperta dall’ex dipendente, configura – secondo la Corte – un vero e proprio raggiro. Infatti la Società avrebbe taciuto una circostanza, e cioè l’assenza della soppressione della posizione lavorativa, determinante per formare il consenso delle parti. Tale silenzio di una delle parti “in ordine a situazioni di interesse della controparte e la reticenza, qualora l’inerzia della parte si inserisca in un complesso comportamento adeguatamente preordinato, con malizia o astuzia, a realizzare l’inganno perseguito, determinando l’errore del deceptus, integrano gli estremi del dolo omissivo rilevante ai sensi dell’art. 1439 c.c.”. La conseguenza è stata quindi l’annullamento del verbale di conciliazione tra le parti. La sentenza in commento sembra mettere a rischio il valore dei verbali sottoscritti ai sensi dell’art. 2113 c.c., inserendo circostanze in realtà ignote al momento della sottoscrizione.

* Avvocato, socio fondatore dello Studio Legale Daverio & Florio 

 

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