Progresso scientifico e ripresa economica in Italia: un rapporto virtuoso
di Maurizio Centra*
Periodicamente il nostro Paese è alle prese con crisi più o meno rilevanti dal punto di vista economico/sociale, che inducono le parti coinvolte e spesso anche gli osservatori esterni più o meno qualificati a “concentrasi” sugli aspetti emergenti, non considerando adeguatamente i fenomeni che le hanno determinate o favorite. Così facendo, si da probabilmente giusto risalto agli aspetti sociali, che spesso coinvolgono in modo drammatico non solo i diretti interessati ma anche le loro famiglie e le comunità alle quali appartengono, ma si contribuisce ben poco a trovare delle soluzioni che possano evitare o ridurre la probabilità che si ripetano, cosa indispensabile in un periodo di crisi come quello attuale o di lenta ripresa economica come quello che ci aspetta.
Dal boom economico degli anni cinquanta e sessanta del ventesimo secolo, noto anche col nome di “miracolo economico”, ad oggi le esportazioni rappresentano per l’Italia un elemento cardine della propria economia, anche se da allora i consumi interni sono costantemente cresciuti. Il successo delle esportazioni è dato, in estrema sintesi, dalle caratteristiche intrinseche del bene o servizio venduto, ossia quelle che lo rendono unico o difficilmente sostituibile con un altro, ad esempio per qualità, originalità, innovazione, funzionalità, estetica, ecc., ovvero dal prezzo più vantaggioso rispetto ad un altro bene o servizio. Quando i beni pur non essendo totalmente fungibili tra di loro soddisfano lo stesso bisogno, il successo delle esportazioni è dato dal migliore equilibrio tra le caratteristiche intrinseche ed il prezzo. Sebbene l’Italia, come paese, sia unico nel suo genere, sui mercati internazionali i prodotti italiani sono in competizione con prodotti analoghi, molto spesso fungibili, se non addirittura con prodotti contraffatti.
A settanta anni circa dall’inizio del boom economico i prodotti italiani che hanno accresciuto il loro “peso” sui mercati internazionali, per valore e/o diffusione, sono quelli più originali o difficili da imitare, mentre gran parte dei prodotti a “basso costo” o poco originali, con i quali alcune imprese italiane hanno invaso il mondo negli anni cinquanta e sessanta, oggi sono realizzati in Asia e nei paesi in via di sviluppo. Ma per ideare, progettare e realizzare beni che abbiano delle caratteristiche intrinseche che li rendano unici o preferibili ad altri dello stesso tipo non basta la fantasia, che agli italiani in verità non manca, ma occorre ricerca scientifica e sperimentazione pratica, assieme ad un sistema paese che tuteli le opere dell’ingegno, le conoscenze comunque acquisite, lo scambio riservato di informazioni industriali, i processi produttivi, gestionali o commerciali innovativi e che favorisca la leale competizione, non solo sui mercati internazionali ma anche in ambito domestico.
Per illustrare con una sola frase la condizione nella quale si trovano le imprese italiane che vogliono crescere, in termini qualitativi e quantitativi, rimanendo in tema di boom economico, potremmo utilizzare il titolo di un film del 1960 con Totò e Peppino De Filippo: chi si ferma è perduto. Se ci guardiamo intorno con attenzione scopriamo – con piacere – che gran parte delle imprese italiane non si sono mai fermate, nonostante la crisi economica, il credit crunch, la criminalità organizzata, l’eccessiva burocrazia, la tassazione più elevata d’Europa, la mancanza di una politica economica, la lentezza della giustizia e la brutta figura agli ultimi mondiali di calcio!
I ripetuti successi delle imprese italiane nei campi più disparati, dalla meccanica alla moda, dalla farmaceutica all’arredamento, dall’agroalimentare all’occhialeria, non sono casuali bensì risultati concreti di progetti precisi e di tanto lavoro umano, resi possibili o favoriti dalla ricerca, sia di base sia applicata. Proprio questi risultati dimostrano, da un lato, che per essere competitivi occorre stare sempre un passo avanti e, dall’altro, che solo il miglioramento garantisce nel tempo la possibilità di sostituire attività non più profittevoli con altre a maggior valore aggiunto, ma non solo, dimostrano pure che il progresso scientifico, in ogni campo del sapere, è la condizione indispensabile per ottenerli.
Per riflettere sulla possibilità che il progresso scientifico contribuisca a gestire situazioni di crisi economico/sociale, possiamo esaminare una delle crisi più recenti, quella del settore dei call center, tanto rilevante da essere stata citata dal Presidente del Consiglio tra le emergenze nazionali il 17 aprile 2016, nel discorso tenuto subito dopo il c.d. referendum delle trivelle. In pratica, il principale operatore nazionale del settore, che impiega oltre 8 mila dipendenti assunti a tempo indeterminato, ha annunciato un piano di riorganizzazione aziendale che prevede la riduzione del personale fino ad un massimo di 2.990 persone nelle sedi di Roma, Napoli e Palermo, mentre un altro operatore di più piccole dimensioni, ma sempre di rilevanza nazionale, ha dichiarato circa 500 esuberi, concentrati prevalentemente nella sede di Casavatore (Napoli) e, in misura minore, nella sede di Roma.
Le procedure di mobilità dei due operatori sono state avviate, per pura casualità, in tempi ravvicinati ed hanno imposto l’intervento del Ministero dello sviluppo economico, al fine di trovare, ove ci siano, delle soluzioni non traumatiche per i lavoratori coinvolti.
Il settore dei call center, per chi non lo ricordasse, ha conosciuto negli ultimi venti anni una crescita esponenziale, favorita sia dall’avvento di tecnologie e sistemi sempre più evoluti, che hanno enormemente ampliato le funzioni pratiche dei gestori (imprese di call center), ad esempio mediante la c.d. multicanalità, e, con esse, le possibilità degli stessi gestori di offrire servizi di qualità e quantità superiori, a prezzi via via più contenuti, sia dalle politiche di dismissione (esternalizzazione) di centri operativi da parte di soggetti pubblici e privati che, in tal modo, hanno affidato a terzi specializzati le attività di call center e/o contact center fino ad allora svolte direttamente, riducendo i relativi costi e rischi di gestione.
Fin qui sembrerebbe il racconto del normale andamento evolutivo di una delle tante attività d’impresa, se non che, con il passare del tempo, è accaduto che la crescita del mercato dei call center in termini quantitativi si è arrestata, tanto che alcuni enti pubblici e privati che avevano effettuato delle operazioni di esternalizzazione hanno avviato dei processi inversi, le tariffe mediamente praticate sono progressivamente diminuite, in molti casi fino al punto di non coprire più i costi di produzione, è venuta meno la possibilità di ricorrere ai contratti di lavoro atipici, come quelli di collaborazione e progetto, utilizzati dai gestori sia per contenere il costo del lavoro sia per affrontare l’andamento irregolare di alcune attività, il più delle volte connesse a campagne promozionali, ricerche di mercato od emergenze, alcuni gestori nazionali hanno de localizzato le loro aziende all’estero, in paesi a basso costo del lavoro come l’Albania, la Romania o il Marocco, ed infine è comparsa la concorrenza di nuovi operatori stranieri, che hanno guadagnato consistenti “fette di mercato” con politiche di prezzi talmente bassi da rendere impari la competizione da parte degli imprenditori nazionali.
Sul lavoro nei call center, quale fenomeno sociale, si è molto scritto in questi anni ed anche il cinema se né occupato, basti ricordare il film Tutta la vita davanti, diretto nel 2008 da Paolo Virzì e liberamente ispirato al libro Il mondo deve sapere di Michela Murgia, nel quale la protagonista Marta, neo laureata in filosofia con 110 e lode, nell’attesa di un’occupazione adeguata alle sue aspettative diventa un’operatrice telefonica che, mescolando gli schemi imposti dall’azienda alla sua spigliatezza ed inventiva, ottiene un discreto successo professionale, salvo poi mettere in dubbio sia la bontà del suo lavoro sia l’etica del management aziendale. Il lavoro nei call center, fino a poco tempo fa, ha rappresentato per molti un’occupazione temporanea o alternativa alle tipiche occupazioni occasionali (ripetizioni, baby sitting, ecc.). Purtroppo, oggi non è più così, la crisi economica nazionale iniziata nel 2008 ha determinato una tale riduzione delle opportunità di lavoro, in particolar modo per i giovani, che anche l’operatore di call center è diventato un impiego ambito!
Per quanto ogni settore in crisi meriti l’attenzione delle istituzioni, quello dei call center probabilmente l’avrebbe meritata anche prima che le difficoltà giungessero agli attuali livelli, non solo per il suo “peso occupazionale”, che supera gli 80 mila addetti (dati 2011) in ambito nazionale, di cui il 60% circa con contratto di lavoro a tempo indeterminato, ma per il tipo di attività svolte, molte delle quali sono di pubblico servizio e/o di pubblica utilità. È appena il caso di ricordare, solo a titolo di esempio, che i call center di Inps, Inail, Poste Italiane, banche di rilevanza nazionale, quasi tutte le Regioni e dei più grandi Comuni d’Italia sono gestiti da operatori esterni specializzati (privati), in base a contratti di appalto. La necessità di svolgere i servizi a prezzi molto bassi ha indotto alcuni gestori a fare ricorso ai sevizi di altri fornitori o sub appaltatori che praticano tariffe “stracciate”, in grado di rendere convenienti delle attività che, diversamente, non riuscirebbero neppure a coprire il costo del lavoro, in base alle retribuzioni minime stabilite da un qualunque contratto Collettivo nazionale di lavoro italiano. Ovviamente chi crede nella libera concorrenza non può stupirsi del fatto che un imprenditore adotti tutte le forme di contenimento dei costi di produzione che il mercato e le norme gli consentono, ma proprio questo merita – senza alcun intento protezionistico – una riflessione: le norme non dovrebbero assicurare le pari condizioni competitive?
Almeno con riferimento a talune attività di call center, come quelle strumentali all’erogazione di servizi pubblici o di pubblica utilità, dovrebbero esserci delle forme di controllo tali da assicurare in concreto il rispetto di condizioni retributive e previdenziali minime nei confronti del personale impiegato. Poi, se l’operatore di call center più efficiente ed efficace è rumeno è giusto che si aggiudichi la gara. Altrimenti si rischia il dumping sociale, fenomeno nel quale rientra anche il ricorso a prestazioni svolte da imprese residenti in paesi nei quali vige una normativa sostanzialmente differente rispetto a quella italiana, tale da determinare un diverso e minore costo del fattore lavoro, oltre ad altri più noti fenomeni come l’importazione di prodotti provenienti da stati in cui esistono condizioni lavorative peggiori di quelle dei paesi occidentali, il ricorso a prestazioni di imprese transfrontaliere, che impiegano manodopera meno costosa di quella locale, ovvero la delocalizzazione della produzione in paesi con un più basso costo del lavoro. Il caso illustrato se da un lato dimostra che sono necessari interventi normativi e forme di controllo che garantiscano la leale competizione economica nel nostro Paese, non solo al fine di tutelare le imprese nazionali ma anche per evitare che le conseguenze di alcune crisi prevedibili ricadano sulla collettività, dall’altro impone una riflessione sul futuro economico dell’Italia.
Una nazione come l’Italia, che è economicamente importante non solo per il ruolo che occupa negli scambi nell’ambito dell’Unione Europea ma per il suo “peso” nel commercio mondiale, non può fare a meno di una seria politica economica, che dia agli operatori economici dei precisi punti di riferimento, utili al fine di indirizzare le iniziative imprenditoriali e quelle di ricerca scientifica.
In una visione di lungo periodo, ispirandoci al caso precedente, le imprese italiane nel mondo non dovrebbero certo collocarsi tra i principali gestori di call center, anche se tecnologicamente evoluti, ma tra quelle che progettano e realizzano i sistemi teleinformatici, le reti sulle quali “viaggiano” i dati e le informazioni, i satelliti che consentono i collegamenti, i sistemi di protezione dei dati personali, gli apparecchi che consentono di comunicare a soggetti disabili, i sistemi di geo-localizzazione, ecc. Dalla lunga crisi economica che stiamo vivendo emerge che per le imprese nazionali sarà sempre più difficile essere competitive nei prodotti a basso valore aggiunto ma, di contro, che il progresso scientifico è in grado di garantire all’Italia l’agognata ripresa economica, consentendole non solo di migliorare le sue performance sui mercati mondiali, ma anche di valorizzare il suo immenso patrimonio artistico, storico, paesaggistico ed alimentare. Quando si parla di progresso economico, infatti, non si deve pensare solo a soluzioni complesse ad uso di pochi eletti, ma di soluzioni, strumenti, prodotti e servizi di uso comune, anche senza un’apposita App!
Possiamo quindi terminare con una notizia di questi giorni sull’impiego della tecnologia in un ambito tradizionale come quello agricolo ed una riflessione sulle tecniche di sviluppo condiviso per la ricerca applicata. In materia di sfruttamento del patrimonio alimentare italiano con l’utilizzo di soluzioni tecnologicamente evolute, un’iniziativa interessante è stata appena intrapresa da una delle più antiche ed importanti società agricole nazionali, la quale – nella zona di Jolanda di Savoia (Ferrara) – ha avviato un progetto di rilevante valore economico, che prevede l’utilizzo di sofisticate tecnologie che consentiranno di migliorare i processi agricoli nonché la qualità e la quantità dei prodotti, come ridurre ed ottimizzare l’utilizzo del suolo e delle altre risorse naturali. Oltre ai risultati diretti che, da soli, giustificano l’iniziativa, le tecnologie, le procedure e le competenze che saranno sviluppate nel corso del progetto saranno in parte utilizzabili altrove, con soddisfazione non solo della società che le ha commissionate ma anche dei ricercatori e dei tecnici che le hanno realizzate.
Il popolo italiano, pur essendo tra i più creativi del mondo, ha una bassa propensione alla tutela legale delle opere dell’ingegno (brevetti, marchi, diritti d’autore). Questa non è la sede per affrontare l’argomento, basti solo ricordare che per mancanza di soldi Antonio Meucci non riuscì a depositare il brevetto relativo all’invenzione del telefono a New York, ma di certo si può fare una accenno alla necessità di accrescere la cultura dello sviluppo condiviso di nuovi progetti e/o funzionalità, mediante iniziative che coinvolgano istituzioni pubbliche che si occupano di ricerca, come le Università, il Consiglio nazionale delle ricerche (Cnr) e per certi versi le Regioni, ed imprese private, da sole o raggruppate, ad esempio mediante un contratto di rete. Dal momento che le innovazioni di prodotto e/o di processo richiedono non solo inventiva e capacità ingegneristica, ma anche risorse economiche spesso ingenti, mediante lo sviluppo condiviso di una fase del progetto si possono contenere i costi di ciascun partner e lasciare nella disponibilità di ognuno di loro i risultai ottenuti. A seconda del progetto, questa fase può riguardare gli aspetti teorici o pratici della ricerca, la progettazione, anche solo di alcuni oggetti o funzioni, la sperimentazione, lo sviluppo di prototipi fino alle attività di pre industrializzazione di nuovi prodotti, processi o servizi.
A questo punto, non ci resta che confidare nello “sfruttamento” più efficiente e regolare del genio italico, per avviare iniziative in grado di sostenere la ripresa economica del nostro Paese anche nei periodi di andamento recessivo dell’economia mondiale.
* Odcec Roma
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