La crisi del diritto e del lavoro

di Antonio M. Orazi*

Nel campo del diritto in genere e del diritto del lavoro in particolare tutto è controvertibile, tutto può cambiare da un momento all’altro, non soltanto per nuove leggi, regolamenti, decreti, circolari, messaggi, comunicati, ecc., ma anche per gli orientamenti della giurisprudenza, sia di legittimità sia di merito, che non sono “granitici”, ma suscettibili anch’essi di variazioni nel tempo.Il diritto del lavoro nasce come un diritto securitario, ma la sicurezza ha un costo, che è più difficile da sostenere nei periodi di crisi economica. Tuttavia, oggi, più che mai, di fronte alla grande trasformazione che è in atto bisogna rendersi conto che una crisi come quella attuale si supera soltanto con un sano esercizio della fiducia, tenendo sempre conto che per avere fiducia bisogna dare fiducia e il dare viene prima dell’avere: la fiducia rende liberi. Inoltre bisogna tenere presente che, se il contratto di lavoro è un accordo basato sul consenso, nei limiti imposti dalla legge, il rapporto di lavoro è una relazione basata proprio sulla fiducia, nei limiti imposti dalla natura umana. Così, se si tradisce il consenso o si superano i limiti di legge ci saranno delle conseguenze legali mentre, se si tradisce la fiducia, ci saranno sempre conseguenze nella relazione e (forse) legali. Tuttavia, non potendo la legge, in tutte le sue forme, definire le minute regole di svolgimento del rapporto di lavoro, si è creata, nell’ambito della autonomia dei privati, la figura del contratto collettivo nazionale di lavoro che, nel periodo corporativo, è stato una fonte del diritto (vincolante erga omnes) e poi nella semplice dimensione del diritto civile, è stato ed è, salvo i rinvii sempre più numerosi negli ultimi anni, che le leggi fanno (v. Art. 51,1 d.lgs. n. 81/2015), un contratto quadro che le parti sociali stipulano nell’interesse dei rispettivi associati, per aiutarli nella definizione dei singoli accordi.

L’argomento della rappresentatività delle parti sociali e della misurabilità della stessa non é rilevante ai fini di questo articolo, ma non si può sorvolare sulla persistente in applicazione dell’art. 39 della Costituzione che, in carenza di una qualsiasi disciplina di legge delle organizzazioni sindacali e dell’esangue disciplina delle associazioni non riconosciute, contenuta nel codice civile del 1942, impone il richiamo ai principi di libertà fissati dalla stessa Costituzione, per indirizzare le azioni degli “addetti ai lavori”. Il riferimento è all’art. 2 “la Repubblica riconosce e garantisce i diritti inviolabili dell’uomo, sia come singolo sia nelle formazioni sociali ove si svolge la sua personalità (..)”; all’art. 39, primo comma, “l’organizzazione sindacale è libera” nonché all’art. 41, primo comma, “l’iniziativa economica privata è libera”, cosicché il contratto collettivo di lavoro di diritto civile, al di là dalle qualificazioni delle parti stipulanti, come quella del citato art. 51 del d.lgs. 81/2015, e dai rinvii la cui applicazione è subordinata a tale qualificazione, ha sempre valore vincolante per gli iscritti alle associazioni stipulanti.

Fermo restando che siano gli imprenditori a scegliere a quale associazione aderire, se credono, e a quale contratto collettivo riferirsi, senza neppure uno specifico vincolo di categoria merceologica, che ci portiamo dietro dal periodo corporativo. Cosicché se il singolo imprenditore decidesse di svincolarsi da una qualche associazione a cui avesse aderito, applicando il contratto collettivo dalla stessa stipulato, e aderisse ad altra associazione, dovrebbe applicare il contratto collettivo stipulato da quest’ultima, con i debiti passaggi; ma potrebbe non applicare nessun contratto collettivo o stipularne uno tutto suo. L’unico vincolo, oltre tutti quelli di legge nazionale, soprannazionale, internazionale, sarebbe quello dato da un’altra norma costituzionale: l’art. 36, che può essere considerata priva di norme di attuazione, come l’art. 39 e l’art. 40 il quale, nel sancire il diritto di sciopero, aggiunge che tale diritto “si esercita nell’ambito delle leggi che lo regolano”, quando ci è stata data soltanto una regolazione del diritto di sciopero nei servizi pubblici essenziali, sappiamo bene quanto efficace.

L’unica attuazione del diritto alla retribuzione cosiddetta sufficiente la ritroviamo nella costante giurisprudenza che, di regola, considera sufficiente una retribuzione non troppo discostata da quella fissata da un contratto collettivo considerato prevalente con un metodo di giudizio, sia sullo scostamento che sulla prevalenza del contratto, ampiamente soggettivo e che è stato sempre totalmente scollegato dalla formula completa della legge. Infatti, a ben vedere, la Costituzione dispone che “il lavoratore ha diritto ad una retribuzione proporzionata alla quantità e qualità del suo lavoro e in ogni caso sufficiente ad assicurare a sé e alla famiglia un’esistenza libera e dignitosa” e, francamente, il disposto nella sua interezza, non può non creare un qualche imbarazzo a tutti, perché è inusuale che, valutando la retribuzione di un lavoratore, si consideri se essa è in grado di assicurare un’esistenza libera e dignitosa alla sua famiglia oltre che al lavoratore stesso. Ma tale rilettura del testo non vuole inficiare la nobile previsione costituzionale né contestare il funambolismo giurisdizionale, che pure non sarebbe stato in linea con quella certezza del diritto a cui è legata la nostra cultura di diritto continentale, quando oramai, anche in base ai dictamina delle corti internazionali, ci stiamo avvezzando a sostituire questo vecchio, caro concetto con quello della “prevedibilità” di un giudizio, molto vicino ai canoni della common law. Questo ripensamento serve soltanto ad evidenziare che, se ormai sembra inevitabile quella regolamentazione delle organizzazioni sindacali, dell’una e dell’altra parte, di cui s’è detto, è altrettanto indifferibile la fissazione per legge di un salario minimo, che non faccia riferimento ai minimi di paga previsti dai contratti collettivi, ma sia un valore precisamente identificato, come avviene ai tanti paesi a noi vicini, dentro e fuori dalla Unione europea.

A conclusione del ragionamento si può dire che, da un lato, la trasformazione sociale ed economica in corso, sta rendendo il lavoro tanto variabile da rendere impossibile irretirlo in una contrattazione collettiva che non sia a maglie larghe e, nel contempo, sia ampiamente integrabile tanto a livello aziendale quanto a livello individuale, sperando che, nel frattempo, anche la sfera della inderogabilità possa essere stata ristretta per legge; dall’altro lato occorre che, assicurata la sufficienza della retribuzione, possa darsi tutto lo spazio che merita al salario di risultato. Infatti, indipendentemente dalla qualificazione del rapporto che non è nella disponibilità delle parti, né sociali né contraenti, il lavoro odierno e futuro dovrà avere la caratteristica della collaborazione nel senso più nobile del termine, per poter dare ai lavoratori eccellenti e ai loro datori di lavoro le soddisfazioni che meritano, non soltanto economici.

* Esperto HR e consulente di Conflavoro Pmi

 

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