Dal Repêchage al controllo del lavoratore: tre sentenze significative
a cura di Bernardina Calafiori*
Corte d’appello di Milano – Sentenza n. 131 del 20 gennaio 2017 (pres. Togni, est. Bianchini)
Nei licenziamenti collettivi non esiste in capo al datore di lavoro alcun obbligo legale di repêchage, e anche l’eventuale impegno assunto dallo stesso in sede di accordo sindacale, volto a favorire la ricollocazione dei lavoratori coinvolti dalla procedura, ha «natura meramente contrattuale». Una sua violazione, pertanto, non vizia la procedura di licenziamento collettivo ma potrebbe comportare solamente un risarcimento del danno in favore del dipendente.
Il caso deciso con il provvedimento in epigrafe riguardava l’accertamento della legittimità del recesso intimato ad un dipendente nell’ambito di una procedura di licenziamentocollettivoavviatadaun’impresa di costruzioni e riguardante l’intera forza lavoro addetta ad uno dei propri cantieri. Durante l’iter previsto dalla legge per il licenziamento collettivo (ex legge n. 223/1991), la società raggiungeva un accordo con le organizzazioni sindacali con il quale, oltre a concordare i criteri di scelta dei lavoratori da licenziare, la società si impegnava a «favorire prioritariamente la ricollocazione dei lavoratori» presso futuri cantieri (propri o di imprese partecipate) «compatibilmente con le necessità ed esigenze tecniche, organizzative o produttive dei lavori e delle relative tempistiche». A seguito della procedura, il dipendente veniva licenziato senza che fosse data attuazione alla clausola riguardante l’eventuale ricollocazione. Il dipendente impugnava quindi il licenziamento, lamentandone la natura ritorsiva e comunque l’illegittimità per violazione dell’obbligo di repêchage. Sia il Tribunale sia la Corte d’appello hanno rigettato le domande del lavoratore. La Corte, nella specie, ha confermato la natura meramente contrattuale dell’impegno alla ricollocazione assunto dalla società e ha ribadito come non sussista, in caso di licenziamento collettivo, alcun obbligo di repêchage, il quale è un «elemento appartenente al licenziamento per giustificato motivo oggettivo». La Corte ha ulteriormente affermato che la clausola dell’accordo non può essere considerata un obbligo di repêchage, in quanto volta a favorire la ricollocazione dei lavoratori non solo presso il datore di lavoro ma anche presso aziende terze. In sostanza, secondo la Corte, l’impegno a favorire la ricollocazione dei lavoratori in posizioni future o presso terzi costituisce solo una eventuale opportunità alla quale il datore di lavoro non è obbligato per legge, ma alla quale si vincola contrattualmente, con la conseguenza che il mancato rispetto dell’impegno assunto «può comportare … solo eventuali conseguenze risarcitorie a carico della società, mentre nessuna incidenza può avere rispetto alla legittimità o meno del licenziamento, che rimane vincolato al rispetto della procedura ed ai criteri di scelta». Riguardo alle pretese risarcitorie, la relativa domanda veniva proposta dal dipendente solo in sede di opposizione all’ordinanza Fornero (dopo il primo rigetto del Tribunale) e veniva pertanto dichiarata inammissibile anche dalla Corte d’appello, in quanto del tutto autonoma rispetto alle domande proposte nel ricorso introduttivo, aventi ad oggetto esclusivamente la illegittimità del licenziamento.
Corte di Cassazione, Sezione Lavoro – Sentenza n. 8260 del 30 marzo 2017.
Può essere annullato il verbale di conciliazione sottoscritto in sede sindacale dal lavoratore che sia stato indotto dall’impresa a credere che la propria posizione professionale rientrasse tra quelle eccedenti, salvo poi procedere all’assunzione di un altro lavoratore per la stessa posizione. Tale condotta di silenzio “malizioso” tenuta dall’impresa è infatti idonea ad integrare uno degli estremi del dolo omissivo rilevante ai fini dell’annullabilità dell’accordo ex art. 1439 del codice civile.
Il caso deciso con il provvedimento in epigrafe era relativo ad un verbale di conciliazione sottoscritto in sede sindacale con il quale un dipendente formalizzava l’accettazione nel recesso intimato dal datore di lavoro a seguito di una procedura di licenziamento collettivo.
La controversia sorgeva nel momento in cui il dipendente licenziato veniva a conoscenza dell’assunzione di un altro dipendente nelle medesime mansioni da lui precedentemente svolte nonostante la Società, sia durante la procedura antecedente il licenziamento sia in sede di accordo in sede sindacale, avesse indicato la posizione lavorativa tra quelle eccedentarie. L’ex-dipendente ricorreva in giudizio, chiedendo l’annullabilità del verbale di conciliazione ex. art. 1439 del codice civile affermando che la sua sottoscrizione sarebbe stata viziata dal dolo del suo ex datore di lavoro, il quale avrebbe omesso il fatto che la posizione non fosse in esubero. Le domande del ricorrente venivano rigettate sia in primo sia in secondo grado di giudizio sulla base del rilievo che la reticenza del datore di lavoro non fosse sufficiente ad integrare la nozione di “raggiro” ai sensi dell’art. 1439 cod. civ..
La Corte di Cassazione ha cassato la sentenza, evidenziando che sin dalla lettera di apertura della procedura di licenziamento collettivo la posizione del dipendente era stata indicata come eccedentaria. Tale comportamento ha portato la Corte ad affermare che “il silenzio serbato da una delle parti in ordine a situazioni di interesse della controparte e la reticenza, qualora l’inerzia della parte si inserisca in un complesso comportamento adeguatamente preordinato, con malizia o astuzia, a realizzare l’inganno perseguito, determinando l’errore del deceptus, integrano gli estremi del dolo omissivo rilevante ai sensi dell’art. 1439 del codice civile.”
La pronuncia in esame sembrerebbe aprire un’interpretazione ampia dell’art. 1439 del codice civile, secondo la quale la reticenza datoriale – che non consente al dipendente di valutare la convenienza del verbale di conciliazione in modo consapevole e informato – determinerebbe l’annullabilità dell’accordo stesso. In realtà tale principio viene in qualche modo mitigato dalla Corte ove afferma che, per determinare l’annullabilità dell’accordo, la reticenza di cui sopra deve inserirsi in un “complesso comportamento preordinato, con malizia o astuzia, a realizzare l’inganno” e che il contegno del datore di lavoro deve essere valutato in relazione alle particolari circostanze di fatto, alla qualità e alle condizioni soggettive dell’altra parte.
Corte di Cassazione, Sezione Lavoro – Sentenza n. 26682 del 10 novembre 2017
Il controllo sulla strumentazione aziendale che non comporti un controllo dell’attività lavorativa del dipendente non è sottoposto alle limitazioni dell’art. 4 dello Statuto dei lavoratori. Rimane la necessità che il comportamento datoriale sia rispettoso dei principi di correttezza, pertinenza e non eccedenza previsti dalla normativa in materia di protezione dei dati personali ex. d.lgs. 196/2003.
Il caso deciso con il provvedimento in epigrafe aveva ad oggetto l’invio di undici e-mail di un dipendente contenenti “espressioni scurrili nei confronti del legale rappresentante della società e di altri collaboratori, qualificandoli di inettitudine e scorrettezza” e con le quali si qualificava “negativamente l’azienda come tale”. Il dipendente impugnava il licenziamento irrogato, asserendo che l’acquisizione e l’utilizzo a fini disciplinari delle email inviate dal computer aziendale sarebbe stata in violazione dell’art. 11, comma 2 del d.lgs. 196/2003 secondo il quale: “i dati personali trattati in violazione della disciplina rilevante in materia di trattamento dei dati personali non possono essere utilizzati”. La Corte di Appello di Ancona riformava la pronuncia di primo grado che aveva inizialmente accolto l’impugnazione del licenziamento.
Il tema giungeva alla Corte di Cassazione che, con sentenza n. 26682 del 10 novembre 2017, confermava la legittimità del licenziamento evidenziando in primo luogo che i) il controllo effettuato sui computer aziendali “era del tutto svincolato dall’attività lavorativa ed era stato effettuato per verificare se la strumentazione aziendale in dotazione fosse stata utilizzata per la perpetrazione di illeciti” e che ii) il medesimo controllo era stato “occasionato da una anomalia di sistema tale da ingenerare il sospetto dell’esistenza di condotte vietate”. Per tali ragioni la materia non deve considerarsi compresa nella disciplina (con i relativi limiti) dei cd. controlli a distanza disciplinati dall’art. 4 dello Statuto dei lavoratori (legge 300/1970), considerato, nel caso in esame, nella versione antecedente alle modifiche del d.lgs. 151/2015.
La Suprema Corte ha poi analizzato, più in generale, la coerenza alla normativa in materia di protezione dei dati individuali della condotta del datore. Anche sotto tale profilo è confermata la legittimità dei comportamenti datoriali e, in tal senso, la ha evidenziato :
- che il lavoratore era informato circa la conservazione e duplicazione delle mail inviate dai computer aziendali;
- che “l’acquisizione dei dati era stata effettuata con modalità non eccedenti rispetto alle finalità di controllo e, quindi, nell’osservanza dei criteri di proporzionalità, correttezza e pertinenza”;
- l’ulteriore circostanza per cui “non sono stati rilevati elementi dai quali desumere che il datore di lavoro avrebbe potuto utilizzare misure e metodi meno invasivi per raggiungere l’obiettivo perseguito”.
* Avvocato, socio fondatore dello Studio Legale Daverio & Florio
Lascia un Commento
Vuoi partecipare alla discussione?Sentitevi liberi di contribuire!