La sentenza della consulta sui licenziamenti ingiustificati
di Paolo Soro*
Lo scorso 8 novembre è stata depositata la sentenza 194/2018 della Corte Costituzionale, che ha dichiarato l’illegittimità parziale dell’art. 3, comma 1, del decreto legislativo 4 marzo 2015, n. 23 “Disposizioni in materia di contratto di lavoro a tempo indeterminato a tutele crescenti, in attuazione della legge 10 dicembre 2014, n. 183”, suscitando un acceso dibattito giuridico e dottrinale. Oggi, possiamo finalmente leggerne le motivazioni.
In premessa, giova ricordare che, con Ordinanza del 26/07/2017, il Tribunale Ordinario di Roma, III Sezione Lavoro, aveva sollevato varie questioni di legittimità costituzionale dell’art. 1, comma 7, lettera c), della legge 10 dicembre 2014, n.183 “Deleghe al Governo in materia di riforma degli ammortizzatori sociali, dei servizi per il lavoro e delle politiche attive, nonché in materia di riordino della disciplina dei rapporti di lavoro e dell’attività ispettiva e di tutela e conciliazione delle esigenze di cura, di vita e di lavoro”, e degli artt. 2, 3 e 4 del d.lgs. 4 marzo 2015, n. 23, il tutto con riferimento agli artt. 3, 4, primo comma, 35, primo comma, 76 e 117, primo comma, della Costituzione. La questione nasce dal ricorso presentato contro un provvedimento di licenziamento per giustificato motivo oggettivo ritenuto illegittimo, concernente una lavoratrice assunta dopo il 6 marzo 2015; ossia, rientrante nella tutela di cui agli artt. 3 e 4 del citato d.lgs. 23/2015 e, in particolare, nel comma 1, dell’art. 3 e nel comma unico, dell’art. 4. Il Giudice rimettente, osserva che se la lavoratrice fosse stata assunta prima del 7 marzo 2015, avrebbe usufruito, a seconda delle condizioni di lavoro accertate, della tutela reintegratoria e di un’indennità commisurata a dodici mensilità, ovvero della tutela indennitaria tra dodici e ventiquattro mensilità. Viceversa, poiché è stata assunta a decorrere dal 7 marzo 2015, “ha diritto soltanto a quattro mensilità, e solo in quanto la contumacia del convenuto consente di ritenere presuntivamente dimostrato il requisito dimensionale, altrimenti le mensilità risarcitorie sarebbero state due”.
In particolare, a parere di tale Organo Giudicante, esistono quattro questioni, nelle quali si evidenzierebbero altrettanti profili di incostituzionalità “per contrasto con gli artt. 3, 4, 76 e 117, comma 1, della Costituzione, letti autonomamente e anche in correlazione tra loro”.
- Quanto alla prima, il Giudice lamenta che le disposizioni denunciate viola- no il principio di eguaglianza perché tutelano i lavoratori assunti a decorre- re dal 7 marzo 2015 in modo ingiusti- ficatamente deteriore rispetto a quelli assunti, anche nella stessa azienda, prima di tale data − i quali continua- no a godere del più favorevole regime di tutela previsto dall’art. 18, legge 300/1970 – considerato che “la data di assunzione appare come un dato accidentale ed estrinseco a ciascun rap- porto che in nulla è idoneo a differen- ziare un rapporto da un altro a parità di ogni altro profilo sostanziale”;
- con il secondo profilo, viene dedotto che le stesse disposizioni violano il principio di eguaglianza anche per- ché, nell’ambito degli assunti a de- correre dal 7 marzo 2015, tutelano i lavoratori privi di qualifica dirigen- ziale in modo ingiustificatamente deteriore rispetto ai dirigenti, i quali, “non soggetti alla nuova disciplina, continueranno a godere di indennizzi di importo minimo e massimo ben più consistente”;
- con il terzo profilo, viene osservato che le disposizioni censurate violano, ancora una volta, il principio di egua- glianza, perché il carattere fisso e cre- scente solo in base all’anzianità di ser- vizio dell’indennità da esse prevista, comporta anche che situazioni molto dissimili nella sostanza (quanto, in particolare, alla gravità del pregiudi- zio subito dal lavoratore), vengano tutelate in modo ingiustificatamente identico;
- con il quarto profilo, è dedotta l’ir- ragionevolezza delle disposizioni censurate perché l’indennità da esse prevista, in quanto modesta, fissa e crescente solo in base all’anzianità di servizio, non costituisce, né un ade- guato ristoro del concreto pregiudi- zio subito dal lavoratore a causa del licenziamento illegittimo, né un’ade- guata dissuasione del datore di lavoro dal licenziare illegittimamente, sicché non è soddisfatto il test del bilancia- mento dei contrapposti interessi in gioco.
Prima di passare all’esposizione delle motivazioni della Consulta, occorre dar conto che, nello stesso giudizio costituzionale, si è costituita anche la lavoratrice ricorrente del processo principale, chiedendo che le questioni siano dichiarate fondate. È, inoltre, intervenuta nel giudizio pure la Confederazione generale italiana del lavoro (Cgil), parimenti chiedendo che le questioni sollevate siano dichiarate fondate. Viceversa, il Presidente del Consiglio dei Ministri, rappresentato e difeso dall’Avvocatura Generale dello Stato, ha chiesto che le questioni sollevate siano dichiarate non fondate.
La Corte, in via preliminare, rileva che, successivamente all’Ordinanza di rimessione, è entrato in vigore il decreto legge 12 luglio 2018, n. 87 “Disposizioni urgenti per la dignità dei lavoratori e delle imprese”, il quale ha modificato una delle disposizioni oggetto del presente giudizio costituzionale (art. 3, comma 1, d.lgs. 23/2015), limitatamente alla parte in cui stabilisce il limite minimo e il limite massimo entro cui è possibile determinare l’indennità da corrispondere al lavoratore ingiustamente licenziato, innalzando tali limiti, rispettivamente, da quattro a sei mensilità (limite minimo) e da ventiquattro a trentasei mensilità (limite massimo), dell’ultima retribuzione di riferimento per il calcolo del trattamento di fine rapporto (TFR). Peraltro, il rimettente non censura il quantum delle soglie minima e massima entro cui può essere stabilita l’indennità, ma il meccanismo di determinazione della medesima. Dunque, poiché il contenuto della nuova legge non modifica la norma eccepita quanto alla parte oggetto delle censure di legittimità costituzionale, non mutano i termini essenziali della questione posta dal Giudice rimettente e non vi è necessità di restituire allo stesso gli atti di causa. Prima di esaminare le questioni di legittimità costituzionale sollevate, la Corte dichiara inammissibile l’intervento della Cgil (come da specifica ordinanza acclusa alla sentenza), atteso che la stessa non è parte del giudizio a quo e che non è nemmeno titolare di un interesse qualificato, immediatamente inerente al rapporto sostanziale dedotto in giudizio, che ne legittimi l’intervento. Altresì dichiara inammissibile la censura dedotta dalla lavoratrice ricorrente del processo principale, posto che detta censura si traduce in una questione non sollevata dal Giudice rimettente. Analizzando i quesiti posti, la Corte dichiara l’irrilevanza delle questioni eccepite dal rimettente con riferimento all’art. 2, all’art. 3 (comma 2 e comma 3) e all’art. 4, del d.lgs. 23/2015, in quanto inapplicabili nel giudizio a quo, o comunque non sufficientemente motivate in sede Costituzionale. Inoltre, anche le questioni di legittimità costituzionale dell’art. 1, comma 7, lettera c), legge 183/2014, devono essere dichiarate inammissibili per difetto di motivazione sulla non manifesta infondatezza. Infine, dall’inidoneità della Convenzione OIL 158/1982 (l’Organizzazione Internazionale del Lavoro delle Nazioni Unite) sul licenziamento, non ratificata dall’Italia, a integrare i parametri degli artt. 76 e 117, primo comma, Cost., discende l’inammissibilità della questione sollevata dal rimettente in relazione all’art. 10 della stessa.
Da quanto esposto risulta che, tra le disposizioni denunciate, l’unica che necessita di un approfondito esame costituzionale è l’art. 3, comma 1, d.lgs. 23/2015; detta norma stabilisce che: “Nei casi in cui risulta accertato che non ricorrono gli estremi del licenziamento per giustificato motivo oggettivo o per giustificato motivo soggettivo o giusta causa, il Giudice dichiara estinto il rapporto di lavoro alla data del licenziamento e condanna il datore di lavoro al pagamento di un’indennità non assoggettata a contribuzione previdenziale di importo pari a due mensilità dell’ultima retribuzione di riferimento per il calcolo del trattamento di fine rapporto per ogni anno di servizio, in misura comunque non inferiore a quattro e non superiore a ventiquattro mensilità”. Il Giudice rimettente, in riferimento all’art. 3 Cost., deduce innanzitutto che tale norma viola il principio di eguaglianza, perché tutela i lavoratori assunti a decorrere dal 7 marzo 2015 in modo ingiustificatamente deteriore rispetto a quelli assunti, anche nella stessa azienda, prima di tale data. Per la Corte, la questione non è fondata. Denunciando la disparità di trattamento tra nuovi e vecchi assunti, il rimettente non censura la disciplina sostanziale del primo di tali regimi, ma il criterio di applicazione temporale della stessa, costituito dalla data di assunzione del lavoratore a decorrere dall’entrata in vigore del decreto. Orbene, sul punto occorre ricordare che: “Non contrasta, di per sé, con il principio di eguaglianza un trattamento differenziato applicato alle stesse fattispecie, ma in momenti diversi nel tempo, poiché il fluire del tempo può costituire un valido elemento di diversificazione delle situazioni giuridiche. Spetta difatti alla discrezionalità del Legislatore, nel rispetto del canone di ragionevolezza, delimitare la sfera temporale di applicazione delle norme.” (Ordinanze: 25/2012; 224/2011; 61/2010; 170/2009; 212/2208; 77/2008.
Sentenze: 254/2014; 273/2011; 104/2018). In proposito, considerata la non irragionevolezza del contestato regime temporale, non spetta alla Corte addentrarsi in valutazioni sui risultati che la politica occupazionale perseguita dal Legislatore può aver conseguito.
Con la seconda delle questioni sollevate in riferimento all’art. 3 Cost., il rimettente deduce che l’art. 3, comma 1, d.lgs. 23/2015, viola il principio di eguaglianza perché, nell’ambito degli assunti a decorrere dal 7 marzo 2015, tutela i lavoratori privi di qualifica dirigenziale in modo ingiustificatamente deteriore rispetto ai dirigenti, i quali, “non soggetti alla nuova disciplina, continueranno a godere di indennizzi di importo minimo e massimo ben più consistente”. Anche tale questione, a giudizio della Corte, non è fondata. I dirigenti, pur rientrando (primo comma, art. 2095, codice civile) tra i lavoratori subordinati, si caratterizzano per alcune significative diversità rispetto alle altre figure dei quadri, degli impiegati e degli operai, di guisa che non sono equiparati a tali ultime tre categorie di lavoratori dipendenti. Pertanto, l’esclusione dei dirigenti dall’applicazione della generale disciplina legislativa sui licenziamenti individuali, compresa la regola della necessaria giustificazione del licenziamento, non contrasta con l’art. 3, Cost.
Neppure è fondata per la Corte, la prima delle questioni sollevate in riferimento agli artt. 76 e 117, primo comma, Cost., con cui il Giudice rimettente deduce che l’art. 3, comma 1, d.lgs. 23/2015, viola tali disposizioni costituzionali per il tramite del parametro interposto dell’art. 30 della Carta dei Diritti Fondamentali dell’Unione Europea. Considerato, infatti, che non vi sono disposizioni del diritto dell’Unione che impongano specifici obblighi agli Stati membri nella materia disciplinata dal censurato articolo, si deve escludere che la CDFUE sia applicabile alla fattispecie, e che l’art. 30 della stessa Carta possa essere invocato, quale parametro interposto, nella presente questione di legittimità costituzionale.
Viceversa, risultano fondate le questioni con cui il rimettente lamenta che la norma in questione, prevedendo una tutela contro i licenziamenti ingiustificati rigida e inadeguata, viola gli artt. 3, 4, primo comma, 35, primo comma, e 76 e 117, primo comma, Cost. Al riguardo, richiamando alcuni suoi precedenti, la Corte premette che: “Il diritto al lavoro esige che il Legislatore adegui la disciplina dei rapporti di lavoro a tempo indeterminato al fine ultimo di assicurare a tutti la continuità del lavoro, e circondi di doverose garanzie e di opportuni temperamenti i casi in cui si renda necessario far luogo a licenziamenti. Deve essere garantito il diritto a non essere estromesso dal lavoro ingiustamente o irragionevolmente, e a non subire un licenziamento arbitrario” (Sentenza 541/2000; Ordinanza 56/2006). La Corte prosegue, poi, affermando che: “I limiti posti al potere di recesso del datore di lavoro correggono un disequilibrio di fatto esistente nel contratto di lavoro. Il forte coinvolgimento della persona umana – a differenza di quanto accade in altri rapporti di durata – qualifica il diritto al lavoro come diritto fondamentale, cui il Legislatore deve guardare per apprestare specifiche tutele.” Dopo di che, come già affermato in precedenza: “Il legislatore ben può, nell’esercizio della sua discrezionalità, prevedere un meccanismo di tutela anche solo risarcitorio-monetario (Sentenza 303/2011), purché un tale meccanismo si articoli nel rispetto del principio di ragionevolezza. Il diritto alla stabilità del posto, infatti, non ha una propria autonomia concettuale, ma è nient’altro che una sintesi terminologica dei limiti del potere di licenziamento sanzionati dall’invalidità dell’atto non conforme (Sentenza 268/1994).” Si tratta, in pratica, di una tutela dell’interesse del lavoratoreall’adempimentodelcontratto di lavoro a tempo indeterminato da assicurarsi per equivalente; e, quindi, soltanto economica (la reintegrazione è preclusa). Questo meccanismo di tutela sorregge l’intero impianto della disciplina delineata dal Legislatore, anche nei casi in cui non ricorrono gli estremi del licenziamento per giustificato motivo soggettivo o per giusta causa. Peraltro, tale meccanismo di quantificazione connota l’indennità come rigida, in quanto non graduabile in relazione a parametri diversi dall’anzianità di servizio; e la rende uniforme per tutti i lavoratori con la stessa anzianità. Viceversa, è un dato di comune esperienza, ampiamente comprovato dalla casistica giurisprudenziale, che il pregiudizio prodotto, nei vari casi, dal licenziamento ingiustificato dipende da una pluralità di fattori. L’indennità assume così i connotati di una liquidazione legale forfetizzata e standardizzata, proprio perché ancorata all’unico parametro dell’anzianità di servizio, a fronte del danno derivante al lavoratore dall’illegittima estromissione dal posto di lavoro a tempo indeterminato. Una tale predeterminazione forfetizzata del risarcimento del danno da licenziamento illegittimo non risulta incrementabile pur volendone fornire la relativa prova. Occorre considerare che il Legislatore ha sempre valorizzato la molteplicità dei fattori che incidono sull’entità del pregiudizio causato dall’ingiustificato licenziamento e, conseguentemente, sulla misura del risarcimento (cfr. art. 8, legge 604/1966; art. 18, quinto comma, legge 300/1970). Contrariamente a ciò, la disposizione censurata si discosta da tale percorso; e questo accade proprio quando viene meno la tutela reale, esclusa per i lavoratori assunti dopo il 6 marzo 2015, salvo che nei casi di cui al comma 2, art. 3, d.lgs. 23/2015.
Ebbene, a parere della Corte, anche in linea con tale precedente normativa, una vicenda che coinvolge la persona del lavoratore nel momento traumatico della sua espulsione dal lavoro, non può che prevedere una tutela risarcitoria fondata su molteplici criteri da offrire alla prudente discrezionale valutazione del Giudice, seppure entro i confini tracciati dal Legislatore, per garantire una calibrata modulazione del risarcimento dovuto, entro una soglia minima e una massima. Tale situazione non è rispettata dalla disposizione in esame, nella parte in cui determina l’indennità in un “importo pari a due mensilità dell’ultima retribuzione di riferimento per il calcolo del trattamento di fine rapporto per ogni anno di servizio”, così contrastando, anzitutto, con il principio di eguaglianza, sotto il profilo dell’ingiustificata omologazione di situazioni diverse. Sotto altro profilo, la Corte ricorda che “la regola generale di integralità della riparazione e di equivalenza della stessa al pregiudizio cagionato al danneggiato non ha copertura costituzionale, purché sia garantita l’adeguatezza del risarcimento” (Sentenze: 199/2005; 420/1991; 303/2011). Pertanto, il risarcimento, ancorché non necessariamente riparatorio dell’intero pregiudizio subito dal danneggiato, deve essere necessariamente equilibrato. Deve, in sostanza, realizzare un: “adeguato contemperamento degli interessi in conflitto” (Sentenze: 235/2014; 482/2000).
Appare chiaro che, specie nei casi in cui l’anzianità di servizio non è elevata, la rigida dipendenza dell’aumento dell’indennità alla sola crescita di tale anzianità mostra la sua incongruenza, risultando inadeguato il ristoro del pregiudizio causato dal licenziamento illegittimo, senza che a ciò possa ovviare la previsione della misura minima dell’indennità (quattro / sei mensilità). Risulta, inoltre, di tutta evidenza, come venga minata anche la funzione dissuasiva della stessa indennità risarcitoria nei confronti del datore di lavoro, allontanandolo dall’intento di licenziare senza valida giustificazione.
La Corte, dunque, conclude al riguardo che la disposizione qui oggetto di censura, nella parte in cui determina l’indennità in un “importo pari a due mensilità dell’ultima retribuzione di riferimento per il calcolo del trattamento di fine rapporto per ogni anno di servizio”, contrasta altresì con il principio di ragionevolezza, sotto il profilo dell’inidoneità dell’indennità medesima a costituire un adeguato ristoro del concreto pregiudizio subito dal lavoratore a causa del licenziamento illegittimo, nonché un’adeguata dissuasione del datore di lavoro dal licenziare illegittimamente, oltre a non realizzare un equilibrato componimento degli interessi in gioco (la libertà di organizzazione dell’impresa da un lato, e la tutela del lavoratore ingiustamente licenziato dall’altro). Comprimendo l’interesse del lavoratore in misura eccessiva, al punto da risultare incompatibile con il principio di ragionevolezza, il Legislatore finisce così per tradire la finalità primaria della tutela risarcitoria, che consiste nel prevedere una compensazione adeguata del pregiudizio subito dal lavoratore ingiustamente licenziato.
Da tale irragionevolezza, discende anche il vulnus recato agli artt. 4, primo comma, e 35, primo comma, Cost., posto che una siffatta debole tutela dell’interesse del lavoratore alla stabilità dell’occupazione non può ritenersi rispettosa delle norme costituzionali che, viceversa, hanno il compito di proteggere detto interesse, necessario al pieno sviluppo della personalità umana. Il «diritto al lavoro» (art. 4, primo comma, Cost.) e la «tutela del lavoro in tutte le sue forme ed applicazioni» (art. 35, primo comma, Cost.) comportano infatti la garanzia dell’esercizio nei luoghi di lavoro di altri diritti costituzionalmente garantiti: i principi fondamentali di libertà sindacale, politica e religiosa. Tanto che il timore del recesso – rectius, licenziamento – spinge, o può spingere, il lavoratore sulla via della rinuncia a una parte dei propri diritti.
Infine, la disposizione censurata viola anche gli artt. 76 e 117, primo comma, Cost., in relazione alla previsione di cui all’art. 24 della Carta Sociale Europea, la quale stabilisce che, per assicurare l’effettivo esercizio del diritto a una tutela in caso di licenziamento, le Parti contraenti si impegnano a riconoscere: “Il diritto dei lavoratori licenziati senza un valido motivo, a un congruo indennizzo o ad altra adeguata riparazione”.
In proposito, il Comitato Europeo dei Diritti Sociali ha per l’appunto già avuto modo di chiarire che l’indennizzo è congruo solo se è tale da assicurare un adeguato ristoro per il concreto pregiudizio subito dal lavoratore licenziato senza un valido motivo, e nel contempo dissuadere il datore di lavoro dal licenziare ingiustificatamente.
Orbene, per quanto non vincolante per i Giudici nazionali, in generale, la Corte ha in passato rilevato l’idoneità della Carta Sociale Europea a integrare il parametro dell’art. 117, primo comma, Cost., e ha anche riconosciuto l’autorevolezza delle decisioni del menzionato Comitato (Sentenza 120/2018). In tal modo, si realizza infatti un’integrazione tra fonti e – soprattutto – tra le tutele da esse garantite. Per il tramite dell’art. 24 della Carta Sociale Europea, risultano pertanto violati sia l’art. 76 – nel riferimento operato dalla Legge Delega rispetto alle Convenzioni internazionali – sia l’art. 117, primo comma, Cost.
In conclusione, a parziale accoglimento delle questioni sollevate, la Corte dichiara l’illegittimità costituzionale dell’art. 3, comma 1, d.lgs. 23/2015, sia nel testo originario sia in quello oggi modificato dall’art. 3, comma 1, d.l. 87/2018, limitatamente alle parole:
“Di importo pari a due mensilità dell’ultima retribuzione di riferimento per il calcolo del trattamento di fine rapporto per ogni anno di servizio”.
Da ciò consegue che, nel rispetto dei limiti minimo e massimo dell’intervallo in cui va quantificata l’indennità spettante al lavoratore illegittimamente licenziato, il Giudice terrà conto, innanzitutto, del criterio dell’anzianità di servizio, e, in secondo luogo, anche degli altri criteri già prima richiamati, desumibili in chiave sistematica dall’evoluzione della disciplina limitativa dei licenziamenti; vale a dire: il numero dei dipendenti occupati, le dimensioni dell’attività economica, il comportamento e le condizioni delle parti.
Pur ovviamente astenendoci dall’esprimere qualunque commento relativamente a una sentenza della Consulta, non possiamo esimerci dall’osservare come detta decisione, nella pratica, comporterà inevitabilmente delle disuguaglianze ancora più marcate fra casi sostanzialmente simili, posto che è inimmaginabile pensare a una sorta di uniformità di giudizio tra i Giudici nazionali, quando a volte tale uniformità non si riscontra nemmeno all’interno dello stesso tribunale. Possiamo, dunque, solo auspicare un nuovo immediato intervento da parte del Legislatore, sperando che questa volta risulti, non solo chiaro, ma anche e soprattutto rispettoso dei principi costituzionali.
*Odcec Roma
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