Licenziare via Whatsapp: nuove tecnologie e diritto a confronto

di Giovanni Chiri* 

Recentemente su Il Sole 24 Ore è apparso un articolo intitolato “Carrefour licenzia via Whatsapp”. Si riportava la notizia della chiusura di un supermercato a Crotone a seguito della quale il datore di lavoro aveva comunicato ai lavoratori l’avvio della procedura di licenziamento tramite un messaggio Whatsapp.

Al di là del titolo intrigante (e fuorviante) scelto dal cronista, questo caso  mi  ha portato a interrogarmi sulla validità, efficacia e opportunità di una intimazione di licenziamento trasmessa a un lavoratore via Whatsapp.

La risposta a questi dubbi deve necessariamente muovere dall’individuazione dei requisiti legali dell’intimazione del licenziamento, passando poi per l’analisi della natura giuridica del messaggio trasmesso tramite l’applicazione informatica in questione e della compatibilità di questo strumento con la normativa vigente.

L’art. 2 della legge 15 luglio 1966, n. 604 “Norme sui licenziamenti individuali”, richiede al datore di lavoro di intimare il licenziamento comunicandolo al lavoratore in forma scritta, specificando contestualmente i motivi del recesso corrispondenti alle ragioni di tipo oggettivo o soggettivo del caso.

Come riconosciuto anche dalla giurisprudenza, non sono necessarie specifiche formule sacramentali, ma è sufficiente che dall’atto scritto emerga in modo chiaro e inequivocabile la volontà di recesso.

Inoltre, l’atto di recesso deve essere critto dal datore di lavoro o comunque avere un contenuto tale da poter essere attribuito con certezza a quest’ultimo.

Infine, la comunicazione del licenziamento, quale atto unilaterale recettizio, per produrre i suoi effetti giuridici deve giungere a conoscenza del lavoratore. Alla fattispecie è applicabile la presunzione di conoscenza di cui all’art. 1335 del Codice Civile per la quale la comunicazione si presume conosciuta nel momento in cui perviene all’indirizzo del destinatario.

Alla luce del quadro normativo così delineato, come si colloca la comunicazione del recesso datoriale trasmessa a mezzo dell’applicazione Whatsapp dal proprio device?

La “app” in questione consente di inviare agli altri utenti registrati, oltre che messaggi di testo, anche registrazioni vocali. Appare abbastanza agevole, in questo ultimo caso, sostenere la violazione della forma scritta con le relative conseguenze sanzionatorie per il licenziamento illegittimo.

Qualora invece il licenziamento venisse intimato a mezzo “messaggio di testo”, si osserva quanto segue.

Il “messaggio whatsapp” contenente l’intimazione di licenziamento può essere qualificato giuridicamente come documento informatico, ovvero “documento elettronico che contiene la rappresentazione informatica di atti, fatti o dati giuridicamente rilevanti” (art. 1 comma 1 lett. p, decreto legislativo 7 marzo 2005, n. 82, “Codice dell’Amministrazione Digitale”, c.d. CAD).

Una prima questione è se tale messaggio possa essere qualificato come atto avente forma scritta. Il dubbio è originato principalmente dalla mancanza di certezza sulla provenienza del messaggio da colui che appare esserne il mittente, caratteristica che è conferita solo dall’apposizione di una firma digitale o elettronica che garantisca sicurezza, integrità, immodificabilità del documento informatico e la sua manifesta e inequivoca provenienza dal suo autore (art. 20 c. 1bis CAD). In mancanza della firma digitale o elettronica, il requisito di forma scritta e il valore probatorio del documento informatico sono contestabili e liberamente valutabili dal giudice.

Seconda questione, di tipo contenutistico, è quella relativa alla specificazione delle motivazioni del licenziamento. Il testo eventualmente inviato dal datore di lavoro dovrà contenere una descrizione delle motivazioni del licenziamento idonea ad integrare il requisito ex art. 2 legge 604/1966. Quanto alla natura recettizia dell’atto di licenziamento, come noto l’applicazione Whatsapp prevede un sistema di “spunte” che permette all’utente di stabilire anche data e ora nelle quali il messaggio inviato è stato inoltrato dal sistema (una spunta), consegnato al destinatario (due spunte) ed infine effettivamente letto da quest’ultimo (due spunte blu).

Ci si chiede se tale sistema possa essere idoneo all’applicazione della presunzione di conoscenza ex art. 1335 codice civile e se sia possibile sostenere che il messaggio trasmesso all’indirizzo – non fisico, ma telefonico – del destinatario si possa presumere conosciuto nel momento in cui il mittente visualizzi sull’applicazione le due spunte attestanti l’avvenuto recapito da parte del sistema informatico.

Se, da un lato, la disposizione in questione è stata scritta avendo in mente gli strumenti fisici di comunicazione esistenti all’epoca, è pur vero che la giurisprudenza anche di recente ha esteso l’applicabilità della presunzione di conoscenza alle comunicazioni trasmesse con altri mezzi, quali il telefax.

Si rammenta, inoltre, che già da tempo esiste il concetto giuridico di domicilio digitale e l’evoluzione legislativa è orientata verso l’ampliamento dell’ambito di applicazione di questo istituto (cfr. art. 3bis CAD).

Non sembra quindi potersi escludere che in futuro interventi normativi o giurisprudenziali riconosceranno ulteriore estensione all’ambito di applicazione della presunzione di conoscenza ex art. 1335 codice civile adeguandone la portata alle realtà dei nuovi sistemi tecnologici di comunicazione.

Altra questione che ci si dovrebbe porre riguarda la legittimità di comunicazioni di licenziamento a mezzo strumenti informatici nei casi in cui il rapporto di lavoro sia disciplinato anche da un CCNL che indichi in modo dettagliato le procedure di comunicazione del licenziamento, specificando con quali mezzi debba essere comunicato il recesso datoriale. In questi casi ci si dovrebbe interrogare sulla portata vincolante di tali disposizioni e sulla possibilità o meno di avvalersi di diversi strumenti di comunicazione.

Ad oggi l’unica indicazione fornitaci dalla giurisprudenza in tema di licenziamento intimato a mezzo Whatsapp sembra provenire dalla decisione del Tribunale di Catania – sezione lavoro – del 27 giugno 2017. Nella fattispecie, il giudice ha ritenuto il recesso comunicato tramite messaggio Whatsapp idoneo a integrare il requisito di forma scritta. In particolare tale assunto si fondava sulla circostanza che proprio il lavoratore destinatario della comunicazione di recesso avesse imputato la comunicazione al datore di lavoro – riconoscendone quindi la provenienza – e di conseguenza avesse reagito con impugnazione stragiudiziale del licenziamento. Per lo stesso motivo, secondo il giudicante, il contenuto del messaggio esprimeva la volontà del datore di lavoro di cessare il rapporto di lavoro in modo chiaro e inequivoco, come appunto dimostrato dalla reazione dell’intimato.

Purtroppo tali argomentazioni sono servite solamente ad affermare l’intervenuta decadenza dalla possibilità di impugnare il licenziamento per decorrenza dei termini e non sono state approfondite dal giudicante. Nella pratica, a fronte di una situazione come quella descritta, il lavoratore destinatario del licenziamento che si rivolgesse a un sindacato o professionista minimamente avveduto, con ogni probabilità procederebbe all’impugnazione stragiudiziale del licenziamento intimatogli onde evitare il rischio di decadenza dall’impugnazione stessa. Di conseguenza, il datore di lavoro potrebbe fare proprie anche le considerazioni del Tribunale di Catania per sostenere la piena legittimità formale del proprio recesso. Poniamo invece il caso in cui il lavoratore non tenesse conto del messaggio Whatsapp e si presentasse normalmente al lavoro. Probabilmente il datore di lavoro lo allontanerebbe facendogli presente l’avvenuta cessazione del rapporto di lavoro. In questo caso il lavoratore potrebbe agire in giudizio per l’accertamento dell’illegittimità del licenziamento ritenuto viziato nella forma. Così facendo, il lavoratore evidentemente disconoscerebbe il messaggio in questione e allora l’onere della prova della validità ed efficacia del licenziamento intimato ricadrebbe sul datore di lavoro. Onere che dal piano giuridico e di concetto si trasferirebbe anche sul piano materiale delle modalità di produzione delle relative prove in giudizio. Quest’ultima risulterebbe infatti molto più gravosa rispetto al semplice deposito della raccomandata a/r ricevuta dal lavoratore o comunque recapitata al suo indirizzo.

Ciò considerato, si ritiene che al fine di evitare ulteriori incertezze in una materia già ad alto contenzioso, sia opportuno adottare un atteggiamento cautelativo che favorisca l’uso dei mezzi di comunicazione ai quali l’ordinamento giuridico già riconosce con certezza piena validità ed efficacia (raccomandata a/r, posta elettronica certificata, etc.).

L’evoluzione tecnologica della realtà nella quale operiamo è rapida e il sistema giuridico non è in grado di reagire prontamente ai cambiamenti in atto. In futuro probabilmente assisteremo a un adeguamento in senso tecnologico anche della materia dei licenziamenti. Fino ad allora, l’eccessiva fiducia nei nuovi mezzi tecnologici di uso quotidiano e il voler essere “al passo coi tempi”, anziché agevolarci, potrebbero risultare dannosi.

*Avvocato in Mantova

 

0 commenti

Lascia un Commento

Vuoi partecipare alla discussione?
Sentitevi liberi di contribuire!

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato.