Il rapporto di lavoro nella ” liquidazione giudiziale” disciplinata dal codice della crisi e dell’ insolvenza
di Luigi Andrea Cosattini *
In un quadro normativo come quello attualmente vigente in forza della Legge Fallimentare, povero di indicazioni specifiche ed inequivocabili in materia di effetti dell’apertura di una procedura concorsuale sui rapporti di lavoro pendenti, un progetto di riforma delle procedure concorsuali non avrebbe potuto prescindere dall’obiettivo di introdurre finalmente nel nostro ordinamento una disciplina specificamente finalizzata a regolare la gestione dei rapporti di lavoro nell’ambito di esse. Ed infatti il Parlamento, nell’emanare la legge 19 ottobre 2017 n. 155, con la quale ha conferito al Governo la delega per la riforma delle discipline della crisi di impresa e dell’insolvenza, ha fornito in proposito all’organo esecutivo espresse indicazioni, sia nella parte riguardante i principi generali della riforma, sia nella parte riguardante i criteri direttivi più specificatamente riferiti alla procedura di liquidazione giudiziale (che, com’è noto, nell’ottica della riforma è destinata a sostituire la procedura fallimentare).
Sulla scorta delle indicazioni fornite dalla legge delega si è messa al lavoro la Commissione Rordorf, che com’è noto ha elaborato la propria stesura del decreto delegato da sottoporre all’approvazione definitiva del Governo. Tale bozza, raccogliendo le indicazioni fornite dal legislatore delegante, da un lato ha finalmente previsto una disciplina sufficientemente organica e completa degli effetti dell’apertura della procedura di “liquidazione giudiziale” (denominazione che ha sostituito in toto quella di “fallimento”) sui rapporti di lavoro, dall’altro ha affrontato e risolto molte delle questioni aperte in materia di cessazione del rapporto di lavoro a seguito di tale procedura, dall’altro ancora ha (o meglio aveva, posto che come si dirà tale impostazione è stata poi abbandonata in sede di approvazione definitiva del decreto delegato) approntato un ammortizzatore sociale ad hoc a beneficio dei lavoratori il cui rapporto di lavoro rimaneva sospeso in conseguenza dell’apertura della procedura concorsuale. Il testo della riforma è poi giunto alla definitiva approvazione con il d.lgs. n. 14 del 12 gennaio 2019, pubblicato però in Gazzetta Ufficiale solo un mese dopo, il 14 febbraio 2019.
Nell’ambito del Titolo V, dedicato alla disciplina della liquidazione giudiziale il Codice della Crisi e dell’Insolvenza dedica finalmente una lunga ed articolata norma, l’art. 189, a disciplinare gli effetti della procedura di liquidazione giudiziale sui rapporti di lavoro subordinato pendenti al momento di apertura della procedura e nel corso di essa.
Il comma 1 dell’art. 189, dopo aver confermato quanto già in precedenza espresso dal comma 2 dell’art. 2119 c.c. (e cioè che l’apertura della liquidazione giudiziale nei confronti del datore di lavoro non costituisce di per sé motivo di licenziamento), acquisisce a livello normativo la soluzione già accolta dalla giurisprudenza per ciò che riguarda la sorte del rapporto di lavoro pendente al momento della dichiarazione di apertura della liquidazione giudiziale; stabilisce infatti a tale proposito che “i rapporti di lavoro subordinato in atto alla data della sentenza dichiarativa restano sospesi fino a quando il curatore, con l’autorizzazione del giudice delegato, sentito il comitato dei creditori, comunica ai lavoratori di subentrarvi, assumendo i relativi obblighi, ovvero il recesso”. Risulta con ciò confermata la scelta, già condivisa dalla giurisprudenza di legittimità e da parte della dottrina, di assoggettare i rapporti di lavoro pendenti al regime della sospensione, come in precedenza già previsto dall’art. 72 l.fall.; resta quindi definito che, a seguito dell’apertura della procedura, il rapporto di lavoro entra in fase di sospensione e ciò comporta a carico del lavoratore una situazione di “limbo” nell’ambito della quale egli rimane in attesa delle scelte del curatore in merito alla prosecuzione o cessazione del rapporto di lavoro. Competono quindi al curatore l’onere e la facoltà di decidere se subentrare nel rapporto di lavoro, assumendo con ciò ad ogni effetto di legge la titolarità del rapporto e la qualità di “datore di lavoro”, ovvero di non subentrarvi, lasciando il rapporto in fase di sospensione fino al momento in cui viene esercitato il recesso. Tale situazione, peraltro, si verifica solo nell’ipotesi in cui la dichiarazione di apertura della procedura di liquidazione giudiziale non sia accompagnata dalla decisione del Tribunale di disporre l’esercizio provvisorio dell’impresa ad opera del curatore, posto che il comma 9 dell’art. 189 afferma che “Durante l’esercizio dell’impresa del debitore in liquidazione giudiziale da parte del curatore i rapporti di lavoro subordinato in essere proseguono, salvo che il curatore non intenda sospenderli o esercitare la facoltà di recesso ai sensi della disciplina lavoristica vigente. Si applicano i commi da 2 a 6 e 8 del presente articolo”. La situazione è quindi inversa a quella che si verifica in caso di apertura della procedura senza esercizio provvisorio: mentre in tale ultima ipotesi la regola è quella della sospensione del rapporto di lavoro a meno che il curatore non decida di subentrarvi, nell’ipotesi di esercizio provvisorio la conseguenza “naturale” è quella della prosecuzione del rapporto di lavoro alle dipendenze della procedura, in persona del curatore, a meno che egli non assuma la decisione di disporne la sospensione o di esercitare il recesso.
I successivi commi 2 e 3 si occupano di imporre al curatore di operare al più presto la propria scelta in merito al subentro nel rapporto di lavoro e di disciplinarne le conseguenze. Stabilisce infatti il comma 2 dell’art. 189 che “Il recesso del curatore dai rapporti di lavoro subordinato sospesi ai sensi del comma 1 ha effetto dalla data di apertura della liquidazione giudiziale”, mentre il comma 3 aggiunge che “Qualora non sia possibile la continuazione o il trasferimento dell’azienda o di un suo ramo o comunque sussistano manifeste ragioni economiche inerenti l’assetto dell’organizzazione del lavoro, il curatore procede senza indugio al recesso dai relativi rapporti di lavoro subordinato. Il curatore comunica la risoluzione per iscritto. In ogni caso, salvo quanto disposto dal comma 4, decorso il termine di quattro mesi dalla data di apertura della liquidazione giudiziale senza che il curatore abbia comunicato il subentro, i rapporti di lavoro subordinato che non siano già cessati si intendono risolti di diritto con decorrenza dalla data di apertura della liquidazione giudiziale”. Risulta pertanto confermata anche nella struttura del Codice la fattispecie della “risoluzione di diritto” quale effetto automatico del decorso del tempo a seguito dell’apertura della liquidazione giudiziale senza che il curatore abbia comunicato la propria decisione di subentrare nel rapporto di lavoro: una modalità di risoluzione automatica ed ex lege già prevista dal vigente art. 72 l.fall., ma che ha trovato (a quanto consta) pochissime applicazioni pratiche e sulla quale pressoché inesistente è l’elaborazione giurisprudenziale.
Il comma 4 dell’art. 189 prevede un meccanismo che consente, ad istanza del curatore, dell’Ispettorato del Lavoro e/o di singoli lavoratori, ove sussistano concrete prospettive di prosecuzione dell’attività d’impresa o di trasferimento dell’azienda o di ramo di essa, di chiedere al giudice delegato la proroga del termine di quattro mesi per il subentro del curatore (pena la risoluzione automatica del rapporto) previsto dal comma 3 per un periodo ulteriore fino ad un massimo di otto mesi che decorrono dalla data di deposito del provvedimento con il quale il giudice delegato concede la proroga, con la precisazione che ove la richiesta venga formulata dal curatore o dall’ITL la proroga riguarda tutti i dipendenti, mentre ove la richiesta provenga da uno o più lavoratori la proroga riguarda solo i richiedenti. Entro il termine così prorogato continua la sospensione del rapporto di lavoro e rimane aperta per il curatore la possibilità di subentrarvi ovvero di esercitare il recesso, ed ove si giunga alla scadenza senza che il curatore sia subentrato ovvero abbia comunicato il recesso dal rapporto di lavoro esso si risolve di diritto con effetto dalla data di apertura della liquidazione giudiziale. La particolarità della fattispecie risiede però nel fatto che, ove si addivenga alla risoluzione di diritto all’esito di proroga, è prevista a favore di ciascun lavoratore nei cui confronti è stata disposta la proroga “un’indennità non assoggettata a contribuzione previdenziale di importo pari a due mensilità dell’ultima retribuzione di riferimento per il calcolo del trattamento di fine rapporto per ogni anno di servizio, in misura comunque non inferiore a due e non superiore a otto mensilità, che è ammessa al passivo come credito successivo all’apertura della liquidazione giudiziale”: si tratta quindi di un debito della massa da pagare in prededuzione; circostanza, questa, che lascia presagire che i curatori e l’ITL saranno particolarmente cauti nel richiedere la proroga, ed il giudice delegato sarà particolarmente attento a concederla (soprattutto ove la richiesta venga formulata dai dipendenti stessi).
Se con riferimento agli effetti immediati dell’apertura della procedura di liquidazione giudiziale ai danni del datore di lavoro le indicazioni del Codice sono sufficientemente chiare, non altrettanto può dirsi per ciò che riguarda un altro argomento sul quale il Codice era chiamato ad esprime finalmente un’indicazione legislativa inequivocabile: quello che riguarda la disciplina del recesso dal rapporto di lavoro da parte del curatore. Ed infatti, mentre il testo della Commissione Rordorf affermava che il curatore poteva, ove non volesse subentrare nel rapporto di lavoro, esercitare il recesso da esso “ai sensi della disciplina lavoristica vigente, fatte comunque salve le specifiche previsioni del presente articolo”, tale richiamo specifico alle disposizioni che disciplinano il recesso del datore di lavoro (e segnatamente il licenziamento) in materia giuslavoristica manca nella versione definitivamente approvata e pubblicata in G.U.; il comma 1 dell’art. 189 si ferma, come si è visto, affermando la facoltà del curatore di scegliere fra il subentro nel rapporto di lavoro ed il recesso, ma senza fornire indicazioni specifiche per individuare le norme dalle quali il recesso deve essere regolato.
La necessità di fare ricorso, in materia di recesso, alle normali regole giuslavoristiche in materia di licenziamento potrebbe apparire scontata, anche alla luce degli orientamenti giurisprudenziali sopra richiamati in applicazione della normativa antecedente al Codice. Ma alcuni inducono a ritenere che tale prospettazione non sia poi così pacifica. Ed infatti: (i) l’espresso richiamo alla disciplina giuslavoristica in materia di licenziamento, presente nel testo della Commissione Rordorf, è stato eliminato in sede di approvazione del testo definitivo, il che impone di considerare tale circostanza o una semplice svista, oppure una precisa scelta legislativa; (ii) l’espresso richiamo alla disciplina giuslavoristica in materia di recesso del curatore è invece rimasta nell’ambito del comma 9 dell’art. 189 del Codice con riferimento alle ipotesi di esercizio provvisorio e, quindi, di prosecuzione del rapporto di lavoro quale conseguenza della prosecuzione dell’attività d’impresa pur a seguito dell’apertura della procedura di liquidazione giudiziale: il che può avere il senso di voler rimarcare la differenza fra due ipotesi di recesso (quello da un rapporto del quale il curatore non è diventato parte, avendo scelto di non subentrarvi, e quello da un rapporto del quale il curatore è diventato ad ogni effetto di legge parte sostanziale) che in effetti sono ontologicamente diverse; (iii) il fatto che il comma 8 dell’art. 189 individui quattro diverse modalità di cessazione del rapporto di lavoro (recesso del curatore, licenziamento, dimissioni e risoluzione di diritto), il che consente di sostenere che la disciplina del recesso in caso di mancato subentro del curatore nel rapporto non è assimilabile a quella del licenziamento intimato dal curatore che è invece subentrato in esso.
Le quattro diverse fattispecie di cessazione del rapporto di lavoro or ora menzionate sono accomunate dal fatto che, secondo quanto previsto dal comma 8 dell’art. 189, in tutte e quattro è dovuta a favore del lavoratore l’indennità di mancato preavviso; specifica a tale proposito la norma, con ciò superando i dubbi che in proposito sono affiorati in dottrina ed in giurisprudenza sulla collocazione del relativo credito in privilegio ai sensi dell’art. 2751 bis c.c. ovvero in prededuzione, che tale credito del lavoratore deve essere ammesso al passivo della liquidazione giudiziale, al pari del trattamento di fine rapporto, “come credito anteriore all’apertura della liquidazione giudiziale”, quindi come credito concorsuale e non come debito della massa da pagarsi in prededuzione. Tale ultima indicazione risulta applicabile, in virtù del richiamo che il comma 9 dell’art. 189 contiene al comma 8 dello stesso articolo, anche ai casi di subentro del curatore nel rapporto di lavoro per effetto della prosecuzione dell’esercizio dell’impresa, a meno che non se ne voglia escludere l’estensione in virtù della locuzione “in quanto compatibile” utilizzata dal Legislatore della riforma; ciò desta a mio parere qualche perplessità in considerazione del fatto che, in caso di esercizio provvisorio, il curatore subentra ad ogni effetto di legge nel rapporto di lavoro, dal che dovrebbe discendere la conseguenza che esso diventa a tutti gli effetti un rapporto i cui oneri devono ricadere sull’attivo fallimentare in prededuzione; sarebbe risultato più logico e coerente con i principi generali, quindi, ritenere che come debiti della massa con diritto alla prededuzione debbano essere qualificati (oltre che le retribuzioni e gli oneri contributivi correnti maturati nel corso dell’esercizio provvisorio, ovviamente) anche l’indennità sostitutiva del preavviso e le quote di TFR maturate nel corso dell’esercizio provvisorio del comma 7 dell’art. 194, che prevede invece la collocazione come debiti anteriori all’apertura della procedura di liquidazione giudiziale.
Il comma 5 dell’art. 189 si preoccupa di disciplinare le conseguenze delle dimissioni rassegnate dal lavoratore nel corso della procedura di liquidazione giudiziale, stabilendo che “trascorsi quattro mesi dall’apertura della liquidazione giudiziale, le eventuali dimissioni del lavoratore si intendono rassegnate per giusta causa ai sensi dell’articolo 2119 del codice civile con effetto dalla data di apertura della liquidazione giudiziale”. La particolarità della disciplina relativa alle dimissioni risiede nel fatto che, mentre il tenore del comma 5 dell’art. 189 riconosce le dimissioni come sorrette da “giusta causa” solo nell’ipotesi in cui esse vengano rassegnate dal lavoratore solo decorsi quattro mesi dall’apertura della procedura di liquidazione giudiziale (il che presuppone evidentemente che sia stata disposta una proroga del termine per lo scioglimento), il comma 8 dello stesso articolo prevede (come si dirà fra breve) che in ogni ipotesi di dimissioni (a prescindere, quindi, dal momento in cui esse sono rassegnate) matura il diritto del lavoratore dimissionario ad ottenere l’indennità sostitutiva del preavviso, nella misura prevista dal contratto collettivo applicabile in relazione alla tipologia ed alle caratteristiche del rapporto, che costituisce credito anteriore all’apertura della liquidazione giudiziale (e quindi da collocarsi in privilegio ai sensi dell’art. 2751 bis c.c.) e non credito prededucibile. Dalla discrasia fra le due norme sembra di poter intendere che mentre l’indennità sostitutiva del preavviso è dovuta in ogni ipotesi di dimissioni, solo quelle rassegnate dopo almeno quattro mesi di sospensione del rapporto sono qualificabili come sostenute da “giusta causa”, e ciò evidentemente a fini diversi da quello connesso all’indennità di preavviso, quale potrebbe essere il diritto alla Naspi.
È invece disciplinata dal comma 6 dell’art. 189 l’ipotesi in cui il curatore si trovi nella condizione di dover dar corso ad una procedura di licenziamento collettivo ai sensi degli artt. 4 e 24 della legge 23 luglio 1991,n. 223 (ipotesi che ricorre, è utile ricordarlo, nel caso in cui un’impresa che occupa più di quindici dipendenti deve procedere ad almeno cinque licenziamenti nell’arco di 120 giorni riconducibili alla stessa operazione di riorganizzazione aziendale). Per essa il Codice prevede una procedura che ricalca in larga parte quella ordinaria disciplinata dall’art. 4 della legge n. 223/2001, ma con alcune semplificazioni e riduzioni di termini che possono in questa sede essere omesse e per le quali si rimanda all’esame del testo. Stabilisce altresì, il comma 7, che in tutti i casi sopra richiamati è dovuto a favore dell’Inps il contributo previsto dall’art. 2, comma 31, della legge 28 giugno 2012, n. 92 (cioè il contributo a carico del datore di lavoro finalizzato a finanziare il fondo NASPI istituito presso l’Inps) e che il corrispondente importo è ammesso al passivo come credito anteriore all’apertura della liquidazione giudiziale.
Chiarite le analogie che accomunano le quattro modalità di cessazione del rapporto, resta da chiedersi quali siano invece le possibili interpretazioni sugli elementi che le differenziano. Se relativamente agevole appare la soluzione ermeneutica con riferimento alle dimissioni ed al licenziamento, trattandosi di categorie prettamente giuslavoristiche per le quali è difficile ipotizzare una disciplina diversa rispetto a quella normalmente vigente per tali ipotesi di cessazione del rapporto di lavoro al di fuori di una procedura concorsuale (salvo quanto si è detto in merito agli adattamenti che il Codice apporta in materia di licenziamento collettivo), più aperta risulta a mio parere la questione con riferimento all’ipotesi di “recesso del curatore” in ipotesi di mancato subentro di esso nel rapporto di lavoro e di “risoluzione di diritto” per effetto dell’inutile decorso del termine originario (quattro mesi) o prorogato ai sensi del comma 4 (fino a ulteriori otto mesi) concesso al curatore per recedere o subentrare. Il problema si pone, a tacer d’altro, con riferimento alla necessità di motivazioni al fine di sorreggere la legittimità del recesso, alla forma di esso ed alle relative conseguenze.
Per ciò che riguarda l’ipotesi di “risoluzione di diritto” sembra, a parere di chi scrive, che, per quanto gli studiosi e la giurisprudenza di matrice più strettamente giuslavoristica si possano adoperare per attrarre la fattispecie nell’ambito delle regole proprie del diritto del lavoro, risulti difficile eludere un dato normativo che, quantomeno sotto il profilo letterale, va invece in una direzione più propriamente “civilistica”. L’indicazione del Legislatore sembra infatti proprio quella di ricollegare la cessazione del rapporto di lavoro non ad un atto unilaterale di una delle parti di esso ma ad un evento esterno alla loro volontà, e cioè il mero decorrere del termine; così ricostruita, la cessazione del rapporto sarebbe effetto di una condizione risolutiva stabilita ex lege, qualificazione giuridica che dovrebbe comportare alcuni corollari non trascurabili, fra i quali: (i) non essendo qualificabile come atto negoziale unilaterale, la “risoluzione di diritto” non richiede altro requisito e/o altra motivazione se non il verificarsi dell’evento individuato come condizione risolutiva e cioè il trascorrere del termine; (ii) operando “di diritto”, non richiede per produrre i propri effetti particolari forme e/o modalità di comunicazione, salvo l’onere della parte che intenda avvalersi dell’intervenuta risoluzione di comunicare all’altra la propria volontà di avvalersene, in analogia a quanto disposto dall’ultimo comma dell’art. 1456 c.c.; (iii) non è ipotizzabile una tutela risarcitoria e/o reintegratoria plasmata sulla base delle norme giuslavoristiche qualora l’intervenuta risoluzione sia erroneamente invocata (caso peraltro piuttosto improbabile, atteso quanto sopra espresso), dovendosi invece applicare in tal caso le ordinarie norme civilistiche in caso di invalidità.
Maggiori incertezze suscita l’ipotesi del recesso del curatore nel caso in cui egli non sia subentrato nel rapporto di lavoro, e quindi nel caso in cui egli decida di sciogliersi dal rapporto ai sensi dell’art. 189, comma 1 mentre esso è in fase di sospensione a seguito dell’apertura della procedura di liquidazione giudiziale. Anche con riferimento a tale fattispecie, peraltro, sembra che l’indicazione del Legislatore sia nel senso di consentire al curatore una pura e semplice facoltà di recesso ad nutum secondo la disciplina dell’art. 2118 c.c., con ciò attribuendo al lavoratore solo il diritto all’indennità di preavviso; se così è, il recesso del curatore risulta svincolato da ogni necessità di motivazione e non necessità di causali diverse ed ulteriori rispetto alla pura e semplice volontà di sciogliersi dal contratto, mentre per ciò che riguarda la forma è sufficiente una comunicazione scritta che manifesti la volontà del curatore di sciogliersi dal rapporto ai sensi della disposizione di legge.
La disciplina degli ammortizzatori sociali Il testo elaborato dalla Commissione Rordorf proponeva una soluzione che forse più di tutte contribuiva a coniugare le opposte esigenze della massa fallimentare e dei lavoratori dipendenti dal datore di lavoro assoggettato alla procedura di liquidazione giudiziale; ed infatti l’art. 195 della bozza di decreto delegato, rubricato “Nuova prestazione di Assicurazione Sociale per l’Impiego nella Liquidazione Giudiziale – NASpILG”, recependo in proposito le indicazioni fornite dagli operatori dei settori più attenti alle esigenze di tutela della parte debole del rapporto, stabiliva al comma 1 che “Lo stato di sospensione del rapporto di lavoro nella liquidazione giudiziale è equiparato allo stato di disoccupazione con applicazione, in quanto compatibili, dei servizi e delle misure di politiche attive del lavoro previste dalla disciplina vigente”, e che al lavoratore il cui rapporto di lavoro risultasse sospeso per effetto dell’apertura della procedura di liquidazione giudiziale spettasse, sussistendone i presupposti già previsti dalla disciplina che regola la Naspi, a partire dalla data di apertura della liquidazione giudiziale, un trattamento equivalente a quello di NASpI, denominato Nuova prestazione di Assicurazione Sociale per l’Impiego nella Liquidazione Giudiziale – NASpILG, destinato a cessare qualora il curatore subentrasse nel rapporto di lavoro; specificava inoltre la norma che il trattamento non può superare la durata massima prevista dal d.lgs. n. 22/2015 per il normale trattamento “non concorsuale”. In sostanza, il periodo di erogazione a favore del lavoratore della NaspiLG si sarebbe integrato ed assommato a quello della normale Naspi di cui al d.lgs. n. 22/2015, di tal ché il periodo complessivo di godimento di tale forma di sostegno al reddito sarebbe rimasto invariato. Così regolando l’istituto, la Commissione aveva individuato una forma che avrebbe consentito verosimilmente di mettere d’accordo tutti (nei limiti di quanto ciò è possibile nel caso in cui si verifichi una procedura di liquidazione giudiziale…): il dipendente, che anziché trovarsi del tutto scoperto avrebbe potuto almeno contare sull’ammortizzatore sociale come sopra disciplinato; il curatore, che avrebbe potuto riflettere con maggiore calma sulle sorti dell’azienda, senza essere condizionato dal fatto che la sospensione dei rapporti di lavoro lascia i dipendenti privi di ogni forma di sostentamento; ed anche lo Stato, posto che la NaspiLG non avrebbe alterato il costo complessivo dell’ammortizzatore sociale in considerazione del fatto che quanto erogato a titolo di NaspiLG avrebbe decurtato in misura corrispondente quanto complessivamente erogabile al dipendente a titolo di Naspi.
Tale soluzione non ha però trovato conferma nella versione del Codice approvata in via definitiva dal Governo e trasfusa nel testo del d.lgs. n. 14/2019. Stabilisce infatti l’art. 190 del testo definitivamente approvato che “La cessazione del rapporto di lavoro ai sensi dell’articolo 189 costituisce perdita involontaria dell’occupazione ai fini di cui all’articolo 3 del decreto legislativo 4 marzo 2015, n. 22 e al lavoratore è riconosciuto il trattamento NASpI a condizione che ricorrano i requisiti di cui al predetto articolo, nel rispetto delle altre disposizioni di cui al decreto legislativo n. 22 del 2015”; l’erogazione dell’ammortizzatore sociale è dunque subordinata (oltre che alla sussistenza dei requisiti di legge per fruirne, ovviamente) non all’apertura della procedura di liquidazione giudiziale, ma alla cessazione del rapporto di lavoro per una delle cause disciplinate dall’art. 189 e sopra esaminate. Vero è, ed opportuno evidenziarlo, che il d.l. 28 settembre 2018, n. 109, ha “resuscitato” con il proprio art. 44 la “Cassa integrazione per cessazione di attività”, stabilendo che “può essere autorizzato sino ad un massimo di 12 mesi complessivi (…) il trattamento straordinario di integrazione salariale per crisi aziendale qualora l’azienda abbia cessato o cessi l’attività produttiva e sussistano concrete prospettive di cessione dell’attività con conseguente riassorbimento occupazionale, secondo le disposizioni del decreto del Ministro del lavoro e delle politiche sociali del 25 marzo 2016 n. 95075 (…), oppure laddove sia possibile realizzare interventi di reindustrializzazione del sito produttivo, nonché in alternativa attraverso specifici percorsi di politica attiva del lavoro posti in essere dalla Regione interessata, nel limite delle risorse stanziate (…), e non utilizzate, anche in via prospettica”. Ma si tratta evidentemente di tutt’altra cosa rispetto all’ammortizzatore sociale “automatico” previsto dalla bozza della Commissione Rordorf, che si attivava direttamente per effetto dell’apertura della procedura di liquidazione giudiziale, anche a voler sorvolare sul fatto che la Cassa approntata dall’art. 44, d.l. n. 109/2018 è prevista in via temporanea solo per gli anni 2019 e 2020, occorre evidenziare che l’erogazione di essa è riservata solo alle ipotesi di cessazione dell’attività e sempre che sussistano concrete prospettive di riassorbimento dell’occupazione, il che non è poi così frequente; ha infatti precisato a tale proposito la Circolare Inps n. 15 del 4 ottobre 2018 che “il trattamento di integrazione salariale straordinaria per crisi aziendale può essere riconosciuto – alla presenza di determinate condizioni – sino a dodici mesi limitatamente a ciascun anno 2018, 2019 e 2020 in favore di quelle imprese, anche in procedura concorsuale, che abbiano cessato la propria attività produttiva e non si siano ancora concluse le procedure per il licenziamento di tutti i lavoratori, o la stiano cessando”. Per di più, grava in questo caso sul Curatore l’onere di attivarsi per chiedere (ed auspicabilmente ottenere, una volta verificato che ne sussistono le condizioni) l’accesso alla Cassa, mentre invece il testo della Commissione Rordorf prevedeva un meccanismo sicuramente molto meno impegnativo e gravoso.
La disciplina in materia di trasferimenti d’azienda: cenni
Da ultimo (e limitando la presente disamina alle più importanti questioni di coordinamento fra disciplina concorsuale e disciplina giuslavoristica alle quali il testo del Codice offre una soluzione normativa, ché la disamina completa di esse esula dalla portata della presente trattazione) occorre dedicare qualche cenno al tema dei trasferimenti d’azienda. In proposito la disciplina risulta meno chiara e lineare di quanto previsto per le disposizioni sopra richiamate, attesa la scelta della Commissione di non inserire l’intero corpus normativo a ciò dedicato nell’ambito del testo del Codice, ma di disciplinare la materia in parte nell’ambito del Codice, in parte con il rimando all’art. 47 della legge n. 428/1990, sul cui testo peraltro il Codice interviene in modo significativo.
Stabilisce infatti l’art. 191 che “Al trasferimento di azienda nell’ambito delle procedure di liquidazione giudiziale, concordato preventivo e al trasferimento d’azienda in esecuzione di accordi di ristrutturazione si applicano l’articolo 47 della legge 29 dicembre 1990, n. 428, l’articolo 11
del decreto-legge 23 dicembre 2013, n. 145, convertito nella legge 21 febbraio 2014, n. 9 e le altre disposizioni vigenti in materia”, ed interviene poi con le disposizioni di attuazione a modificare il testo dell’art. 47, legge n. 428/1990.
Assumono inoltre rilievo, in materia di effetti del trasferimento d’azienda sui rapporti di lavoro pendenti e sui diritti ed obblighi ad essi connessi, gli artt. 184 e 212, che disciplinano (sotto diversi profili) gli effetti della liquidazione giudiziale sui contratti di affitto d’azienda. In particolare, il comma 6 dell’art. 212 stabilisce che “La retrocessione alla liquidazione giudiziale di aziende, o rami di aziende, non comporta la responsabilità della procedura per i debiti maturati sino alla retrocessione, in deroga a quanto previsto dagli articoli 2112 e 2560 del codice civile. Ai rapporti pendenti al momento della retrocessione si applicano le disposizioni di cui alla sezione V del capo I del titolo V”, mentre il comma 2 dell’art. 184 richiama tale disciplina anche nel caso di recesso del curatore dal contratto di affitto d’azienda stipulato prima dell’apertura della procedura dall’imprenditore in bonis (o comunque alla scadenza di esso).
Importanti e sostanziali sono altresì le modifiche che l’art. 368 del Codice apporta all’art. 47 della legge n. 428/1990, alla cui lettura si rimanda.
Sarà quindi sufficiente in questa sede, per fornire un quadro di sintesi, evidenziare che:
(i) il comma 6 dell’art. 212 ed il comma 2 dell’art. 184 risolvono i dubbi in precedenza posti dall’art. 104 bis l.fall., prevedendo l’insensibilità della procedura per i debiti maturati a favore dei lavoratori prima della retrocessione dell’azienda alla procedura, e ciò sia nel caso in cui essa fosse stata concessa in affitto dall’imprenditore in bonis prima dell’apertura della procedura, sia nel caso in cui la concessione in affitto sia stata conclusa dal curatore nell’ambito della procedura; (ii) nei casi di trasferimenti di aziende nell’ambito di procedure disciplinate dal Codice la comunicazione di apertura della procedura cui all’art. 47, comma 1, legge n. 428/1990 può essere effettuata anche solo da chi intenda proporre offerta di acquisto dell’azienda e subordinando l’efficacia degli accordi di cui ai commi 4 bis e 5 all’aggiudicazione dell’azienda; (iii) qualora il trasferimento riguardi imprese nei confronti delle quali vi sia stata apertura della liquidazione giudiziale e non vi sia la continuazione dell’attività ovvero essa sia cessata, i rapporti di lavoro continuano con il cessionario, ma nel corso delle consultazioni sindacali di cui all’art. 47, legge n. 428/1990 possono comunque stipularsi, con finalità di salvaguardia dell’occupazione, contratti collettivi ai sensi dell’art. 51, d.lgs. 15 giugno 2015, n. 81 in deroga ai commi 1 (prosecuzione dei rapporti di lavoro), 3 (obbligo per il cessionario di applicare i trattamenti economici e normativi previsti dalla contrattazione collettiva) e 4 (il trasferimento d’azienda non costituisce di per sé motivo di licenziamento) dell’art. 2112 c.c., ferma restando altresì la possibilità di accordi individuali da sottoscriversi nelle sedi di cui all’art. 2113, ultimo comma, c.c.; (iv) in tali ipotesi non trova applicazione (a prescindere dalla conclusione di accordi sindacali sul punto) quanto disposto dal comma 2 dell’art. 2112 c.c., e quindi non opera il regime della responsabilità solidale fra cedente e cessionario in relazione ai crediti vantati dal lavoratore alla data del trasferimento; (v) in caso di retrocessione alla procedura di liquidazione giudiziale dell’azienda affittata a terzi è esclusa la responsabilità della procedura per i debiti maturati in pendenza dell’affitto; (vi) la data del trasferimento tiene luogo di quella della cessazione del rapporto di lavoro (anche ai fini dell’individuazione dei crediti di lavoro diversi dal trattamento di fine rapporto) ed il trattamento di fine rapporto è considerato come immediatamente esigibile nei confronti del cedente dell’azienda con la conseguenza che esso, nell’ambito della procedura di liquidazione giudiziale, viene ammesso al passivo ed il Fondo di garanzia, in presenza delle condizioni previste dall’art. 2 della legge 29 maggio 1982, n. 297, interviene anche a favore dei lavoratori che passano senza soluzione di continuità alle dipendenze dell’acquirente.
*Avvocato in Bologna
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