Corte UE: libera circolazione dei lavoratori

di Paolo Soro*

La Corte di Giustizia europea ha avuto modo di ribadire (C-478/2015) che le esenzioni valide nei singoli Paesi membri devono trovare applicazione anche in Svizzera, in forza dell’Accordo sulla libera circolazione delle persone, siglato a Lussemburgo, il 21.06.1999, tra la Comunità europea e la Confederazione elvetica.

Una recente controversia portata all’attenzione della Corte UE ha visto opporre, da una parte, i coniugi Peter e Lilian Radgen (cittadini tedeschi, fiscalmente residenti in Germania), e, dall’altra, il Finanzamt Ettlingen (servizio tributario di Ettlingen, Germania).

Detta Amministrazione Fiscale non ha applicato l’esenzione sui redditi percepiti nell’ambito di un’attività di insegnamento esercitata, in via accessoria, presso un istituto di diritto pubblico con sede in Svizzera; esenzione, viceversa, spettante sulla base dell’ordinamento tributario tedesco per i redditi della stessa tipologia conseguiti in Germania. Il Fisco teutonico, in forza del worldwide principale applicato ai residenti per tutti i redditi prodotti nel mondo, ha richiesto l’imposta sul reddito globale maturato sia in patria che in Svizzera, limitandosi a portare in detrazione quanto già versato dai contribuenti in questione all’Erario elvetico, ma senza applicare la citata esenzione.

Va previamente ricordato che l’Accordo sulla libera circolazione dei lavoratori (in vigore dal giugno del 2002), conferisce il diritto di ingresso, di soggiorno e di accesso a un’attività economica dipendente, il diritto di stabilimento quale lavoratore autonomo, e il diritto di rimanere sul territorio, garantendo le stesse condizioni di vita, di occupazione e di lavoro di cui godono i cittadini nazionali; in particolare, in materia di: retribuzione, licenziamento, reintegrazione professionale o ricollocamento se disoccupato. Il lavoratore dipendente e i membri della sua famiglia godono degli stessi vantaggi fiscali e sociali dei lavoratori dipendenti nazionali e dei membri delle loro famiglie.

Come recita l’Accordo: “I cittadini di una Parte contraente che soggiornano legalmente sul territorio di un’altra Parte contraente, non sono oggetto, nell’applicazione di dette disposizioni, ad alcuna discriminazione fondata sulla nazionalità”.

L’Accordo, infine, riconosce alle persone il diritto di presentare ricorso alle Autorità competenti per quanto riguarda la sua regolare applicazione, e fa salve le previsioni delle convenzioni bilaterali e le disposizioni concernenti la particolare categoria dei lavoratori frontalieri.
Per quanto riguarda l’ordinamento nazionale in questione, il diritto tributario tedesco (Einkommensteuergesetz – legge relativa all’imposta sui redditi), vigente per il periodo d’imposta in discussione (2009), come detto, stabilisce che le persone fisiche aventi il loro domicilio o la loro residenza abituale sul territorio nazionale sono ivi soggette alla tassazione per la totalità dei redditi ovunque da loro prodotti. Peraltro, una successiva disposizione, prescrive che le entrate derivanti da attività esercitate in via accessoria, in qualità di titolare di un corso, di formatore, di educatore o di istruttore o da altre attività comparabili, svolte al servizio o per conto di una persona giuridica di diritto pubblico con sede in uno Stato membro dell’Unione europea o in uno Stato in cui si applica l’Accordo sullo Spazio Economico europeo, sono esenti da imposta fino a concorrenza dell’importo totale annuo di euro 2.100.

Giova ricordare che lo Spazio economico europeo (SEE) è stato istituito nel 1994 allo scopo di estendere le disposizioni applicate dall’Unione europea al proprio mercato interno, anche ai Paesi dell’Associazione Europea di Libero Scambio (AELS), o, se si preferisce, EFTA – European Free Trade Association. La Svizzera, pur non facendo parte del SEE (nel referendum nazionale del dicembre 1992 vinse il “no”), resta un membro dell’EFTA. Inoltre, i circa 120 Trattati bilaterali settoriali che legano il Paese all’UE includono per lo più le stesse disposizioni adottate dagli altri Paesi SEE nei settori della libera circolazione di persone, beni, servizi e capitali. In ogni caso, dal 1° giugno 2016, i cittadini di tutti gli Stati dell’UE-27/AELS, di regola soggiacciono alle medesime condizioni.

Sul fondamento di tali precetti di diritto, i contribuenti hanno prospettato alla Corte di Giustizia UE la seguente questione pregiudiziale:

“Se le disposizioni dell’Accordo tra la Comunità Europea e i suoi Stati membri, da un parte, e la Confederazione svizzera, dall’altra, sulla libera circolazione delle persone, debbano essere interpretate nel senso che ostano alla normativa di uno Stato membro secondo cui un cittadino, integralmente assoggettato a imposta in questo Stato, vede negarsi la detrazione di un importo esente per un’attività d’insegnamento esercitata in via accessoria, poiché questa non viene prestata al servizio o per conto di una persona giuridica di diritto pubblico con sede in uno Stato membro dell’Unione europea o in uno Stato in cui trova applicazione l’Accordo sullo Spazio economico europeo, ma viene prestata al servizio o per conto di una persona giuridica di diritto pubblico stabilita nel territorio della Confederazione svizzera.”

La Corte analizza prima alcune obiezioni in merito alla ricevibilità della questione pregiudiziale.

L’Erario tedesco, in via preliminare, ha sostenuto che l’interpretazione dell’articolo 11 dell’Accordo sulla libera circolazione delle persone, relativo alla trattazione dei ricorsi, e quella dell’articolo 15 dell’allegato I di detto accordo, relativo ai lavoratori autonomi, sono inconferenti ai fini dell’esito della controversia pendente dinanzi al giudice del rinvio.

A tal riguardo, secondo consolidata giurisprudenza della Corte, le questioni relative all’interpretazione del diritto dell’Unione sollevate dal giudice nazionale nel contesto normativo e fattuale che egli definisce sotto la propria responsabilità, e del quale non spetta alla Corte verificare l’esattezza, godono di una presunzione di rilevanza. In base a ciò, il rifiuto, da parte della Corte, di statuire su una questione pregiudiziale sollevata da un giudice nazionale, è possibile solo laddove: risulti manifestamente che la richiesta interpretazione del diritto dell’Unione non abbia alcuna relazione con la realtà o con l’oggetto del procedimento principale; il problema sia di natura ipotetica; la Corte non disponga degli elementi di fatto o di diritto necessari per fornire una soluzione utile alle questioni che le sono sottoposte.

Nella specie, da una parte, risulta dall’articolo 11 dell’Accordo sulla libera circolazione delle persone, che tale norma garantisce alle persone che ricadono nell’accordo stesso, il diritto di presentare ricorso per quanto riguarda l’applicazione delle disposizioni di detto accordo dinanzi alle Autorità competenti. Orbene, non risulta dal fascicolo sottoposto alla Corte, che tale diritto sia stato negato ai coniugi Radgen. Dall’altra parte, è pacifico che l’attività esercitata dal contribuente in Svizzera fosse un’attività di lavoro dipendente. E, dato che l’articolo 15 dell’allegato I dell’Accordo sulla libera circolazione delle persone si applica ai lavoratori autonomi, vale a dire alle persone che non esercitano un’attività di lavoro dipendente, il Radgen non ricade nella sfera di applicazione di tale articolo.

In questo contesto, appare evidente che l’interpretazione dell’articolo 11 dell’Accordo sulla libera circolazione delle persone e quella dell’articolo 15 dell’allegato I di tale Accordo sono inconferenti ai fini dell’esito della controversia pendente dinanzi al giudice del rinvio. Pertanto, la questione pregiudiziale, nella parte in cui verte sull’interpretazione di tali disposizioni, è irricevibile.

In secondo luogo, il Governo tedesco ritiene che il Radgen non possa essere qualificato come «lavoratore dipendente frontaliero», ai sensi dell’articolo 7 dell’allegato I dell’Accordo sulla libera circolazione delle persone. Di contro, tale Governo non sostiene che il Radgen, per l’esercizio dell’attività dipendente in parola, non abbia fatto uso del suo diritto alla libera circolazione. Dato che il giudice del rinvio ha qualificato in modo inequivoco il contribuente quale «lavoratore dipendente frontaliero», ai sensi dell’articolo 7 dell’allegato I di detto Accordo, occorre, per la Corte, fondarsi sulla premessa che il Radgen possieda tale status. In ogni caso, dato che è pacifico che il citato Radgen abbia fatto uso del suo diritto alla libera circolazione per esercitare un’attività di lavoro dipendente sul territorio di un’altra Parte contraente dell’Accordo sulla libera circolazione delle persone, vale a dire la Confederazione svizzera, l’interpretazione richiesta delle disposizioni di tale Accordo relative alla parità di trattamento dei lavoratori dipendenti non risulta di natura ipotetica, sicché la questione pregiudiziale, nella parte in cui verte su detta interpretazione, è ricevibile.

Si rammenta che, ai sensi del citato articolo 7, dell’allegato I, dell’Accordo, il lavoratore dipendente frontaliero è un cittadino di una Parte contraente che ha la sua residenza sul territorio di quella stessa Parte contraente e che esercita un’attività retribuita sul territorio dell’altra Parte contraente e, però, ritorna al luogo del proprio domicilio, di norma, ogni giorno, o almeno una volta alla settimana.

Esaurita la trattazione sulla ricevibilità, si passa al merito della vicenda.

Riassumendo, con la sua questione, il giudice del rinvio intende chiarire, in sostanza, se le disposizioni dell’Accordo sulla libera circolazione delle persone relative alla parità di trattamento dei lavoratori dipendenti vadano interpretate nel senso che ostano alla normativa di uno Stato membro, la quale non concede a un cittadino residente integralmente assoggettato all’imposta sui redditi, che abbia fatto uso del suo diritto alla libera circolazione per esercitare in via accessoria un’attività dipendente di insegnamento al servizio di una persona giuridica di diritto pubblico stabilita in Svizzera, il beneficio dell’esenzione dall’imposta relativa al reddito proveniente da detta attività di lavoro dipendente, mentre la stessa esenzione sarebbe stata concessa se tale attività fosse stata esercitata al servizio di una persona giuridica di diritto pubblico stabilita in tale Stato membro, in un altro Stato membro o in un altro Stato al quale si applichi l’accordo SEE.

In materia di vantaggi fiscali, la Corte ha già avuto occasione di dichiarare che il principio della parità di trattamento può essere invocato anche da un lavoratore cittadino di una Parte contraente che abbia esercitato il suo diritto alla libera circolazione nei confronti del suo Stato d’origine. Ed è pacifico che il Radgen abbia fatto uso del suo diritto alla libera circolazione, esercitando un’attività di lavoro dipendente sul territorio della Confederazione svizzera. Ne consegue che ricade nella sfera di applicazione dell’allegato dell’Accordo e, pertanto, può invocare l’applicazione di tale disposizione normativa nei confronti del suo Stato di provenienza.

Occorre, dunque, verificare se il contribuente abbia subito uno svantaggio fiscale rispetto ad altri cittadini tedeschi residenti in Germania che esercitano un’attività di lavoro dipendente simile alla sua e che, contrariamente a lui, esercitano tale attività al servizio di una persona giuridica di diritto pubblico stabilita sul territorio nazionale, in un altro Stato membro dell’Unione o in un altro Stato al quale si applichi l’accordo SEE.

In proposito, è sufficiente rilevare che la normativa nazionale oggetto del procedimento principale, nel negare, ai contribuenti residenti in Germania che esercitano in via accessoria un’attività d’insegnamento al servizio di una persona giuridica di diritto pubblico stabilita in Svizzera, il beneficio dell’esenzione dall’imposta sui redditi relativa alla retribuzione proveniente da tale attività di lavoro dipendente (mentre una tale esenzione sarebbe stata concessa se detta attività fosse stata esercitata al servizio di una persona giuridica di diritto pubblico stabilita sul territorio nazionale, in un altro Stato membro dell’Unione o in un altro Stato al quale si applichi l’accordo SEE), provoca una differenza di trattamento fiscale tra i contribuenti tedeschi residenti in Germania in funzione dell’origine dei loro redditi. Tale differenza di trattamento è tale da dissuadere i contribuenti tedeschi residenti in Germania dall’esercitare il loro diritto alla libera circolazione, svolgendo un’attività di lavoro dipendente di insegnamento sul territorio svizzero e continuando a risiedere nel loro Stato di origine; conseguentemente, costituisce una disparità di trattamento, in contrasto con l’articolo 9, paragrafo 2, dell’allegato I, dell’Accordo sulla libera circolazione delle persone.

Tuttavia, occorre parimenti tener conto, in primo luogo, dell’articolo 21, paragrafo 2, di tale Accordo, che consente l’applicazione di un trattamento differenziato, in materia fiscale, ai contribuenti che non si trovano in una situazione comparabile, in particolare per quanto riguarda il loro luogo di residenza. In secondo luogo, quando i contribuenti si trovino in una situazione comparabile, da costante giurisprudenza della Corte relativa alla libertà di circolazione garantita dal Trattato, si evince che una differenza di trattamento può ancora essere giustificata da motivi imperativi d’interesse generale. In tal caso occorre, inoltre, che tale differenza di trattamento sia idonea a garantire il conseguimento dell’obiettivo perseguito e non ecceda quanto necessario per conseguirlo.

Dato che il principio della parità di trattamento costituisce una nozione di diritto dell’Unione, per determinare l’esistenza di un’eventuale disparità di trattamento nel contesto dell’Accordo sulla libera circolazione delle persone, occorre riferirsi, per analogia, ai principi elaborati dalla giurisprudenza della Corte. Nella fattispecie, si deve rilevare che dei contribuenti tedeschi residenti in Germania che esercitano in via accessoria un’attività di lavoro dipendente di insegnamento sul territorio svizzero non si trovino, per quanto riguarda l’imposta sui redditi, in una situazione comparabile a quella dei contribuenti tedeschi residenti in Germania ai quali l’esenzione in questione è stata concessa. La giustificazione di una disparità di trattamento, dunque, può essere attinente solo a motivi imperativi d’interesse generale. Anche in tale ipotesi, però, essa – come detto – deve essere idonea a garantire il conseguimento dello scopo perseguito e non deve eccedere quanto necessario per raggiungerlo.

A tal riguardo, la Corte ha già avuto modo di affermare (C-281/06; C-816/07), che una siffatta differenza di trattamento non può essere meramente giustificata dalla ragione di interesse generale connessa alla promozione dell’insegnamento, della ricerca e dello sviluppo, dato che tale differenza arreca pregiudizio alla libertà degli insegnanti che svolgono la loro attività in via accessoria, di scegliere il luogo delle loro prestazioni di servizi all’interno dell’Unione, senza che sia stato dimostrato che, per raggiungere l’obiettivo dedotto di promozione dell’insegnamento, risulti necessario riservare il beneficio dell’esenzione fiscale ai soli contribuenti che svolgono un’attività simile in università stabilite nel territorio nazionale.

Una giustificazione fondata su un motivo imperativo d’interesse generale legata alla necessità di garantire la coerenza del regime fiscale tedesco, in assenza di un legame diretto tributario tra l’esenzione fiscale delle indennità a titolo di rimborso spese versate da università nazionali e una compensazione di tale vantaggio con un determinato prelievo fiscale, è stata parimenti già esclusa dalla Corte.

Infine, si rileva altresì che, da una parte, l’esenzione fiscale prevista dall’ordinamento interno tedesco non è una misura vertente sul contenuto dell’insegnamento o relativa all’organizzazione del sistema di istruzione, bensì una misura tributaria di carattere generale, che concede un vantaggio fiscale nel caso in cui un singolo si dedichi ad attività a favore della collettività. D’altra parte, gli Stati membri devono, in ogni caso, nell’esercizio della competenza e della responsabilità di cui dispongono per organizzare il loro sistema di istruzione, rispettare le disposizioni del Trattato relative alla libertà di circolazione.

Conseguentemente, anche qualora una normativa nazionale costituisse una misura connessa a detta organizzazione, essa resterebbe tuttavia incompatibile con il Trattato, in quanto andrebbe a incidere in maniera illegittima sulla scelta degli insegnanti che svolgono la loro attività in via accessoria relativamente al luogo delle loro prestazioni di servizi.

In forza a tali precetti di carattere generale, tra l’altro, la circostanza che l’attività in argomento sia esercitata a titolo di lavoro autonomo o a titolo di lavoro dipendente, non appare decisiva. Di contro, in entrambi i casi, la normativa tributaria tedesca in oggetto, può senz’altro incidere sulla scelta dei contribuenti residenti che esercitino in via accessoria un’attività di insegnamento per quanto riguarda il luogo di svolgimento di tale attività.

Dette considerazioni sono parimenti conformi all’obiettivo dell’Accordo sulla libera circolazione delle persone che, come si evince dal suo preambolo, consiste nel realizzare a favore dei cittadini dell’Unione e di quelli della Confederazione svizzera la libera circolazione delle persone sui territori delle Parti contraenti di tale accordo, fondandosi sulle disposizioni applicate nell’Unione.

Ne consegue che una normativa tributaria nazionale, la quale neghi la concessione di un’esenzione ai contribuenti residenti che abbiano fatto uso del loro diritto alla libera circolazione, esercitando in via accessoria un’attività di lavoro dipendente di insegnamento al servizio di una persona giuridica stabilita sul territorio svizzero, in ragione del luogo di svolgimento di tale attività, instaura una disparità di trattamento non giustificato e, pertanto, si pone in contrasto con l’articolo 9, paragrafo 2, dell’allegato I dell’Accordo sulla libera circolazione delle persone.

La Corte di Giustizia UE, dunque, conclude la sua pronuncia affermando il seguente fondamentale principio di carattere generale: “Le disposizioni dell’Accordo tra la Comunità europea e i suoi Stati membri, da una parte, e la Confederazione svizzera, dall’altra, sulla libera circolazione delle persone, firmato a Lussemburgo il 21 giugno 1999, relative alla parità di trattamento dei lavoratori dipendenti, vanno interpretate nel senso che ostano alla normativa di uno Stato membro, il quale non dovesse concedere a un cittadino residente, integralmente assoggettato all’imposta sui redditi, che abbia fatto uso del suo diritto alla libera circolazione per esercitare in via accessoria un’attività dipendente di insegnamento al servizio di una persona giuridica di diritto pubblico stabilita in Svizzera, il beneficio dell’esenzione dall’imposta relativa al reddito proveniente da detta attività di lavoro dipendente, mentre la stessa esenzione sarebbe stata concessa se tale attività fosse stata svolta al servizio di una persona giuridica di diritto pubblico stabilita in tale Stato membro, in un altro Stato membro dell’Unione europea o comunque in uno Stato al quale si applichi l’Accordo sullo Spazio economico europeo, del 2 maggio 1992. ”Preso atto di tale inevitabile conclusione, resta l’amarezza di dover ancora una volta constatare come, pure nell’ipotesi di controversie di valore assai limitato e di gran lunga inferiore rispetto alle spese della procedura alla fine sopportate, si debba necessariamente arrivare fin innanzi alla Corte UE per vedere statuiti dei principi che, oramai, dovrebbero essere per tutti assolutamente pacifici e consolidati.

                                                                                                                                

0 commenti

Lascia un Commento

Vuoi partecipare alla discussione?
Sentitevi liberi di contribuire!

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato.