Cessione d’azienda, esigibilità del Tfr ed accesso al Fondo di garanzia INPS fra recenti orientamenti giurisprudenziali e nuove indicazioni del codice della crisi d’impresa

di Luigi Andrea Cosattini *

Alcune sentenze emanate dalla Corte di Cassazione nel secondo semestre del 2018 (segnatamente Cass. civ. Sez. lavoro, 1° ottobre 2018, n. 23775, Cass. civ. Sez. lavoro, 26/09/2018, n. 23047 e Cass. civ. Sez. lavoro, 19/07/2018, n. 19277) hanno affrontato per la prima volta ex professo un tema sul quale si è invece sviluppata negli ultimi anni un’ampia casistica in sede applicativa.

Il caso è quello piuttosto diffuso in cui, prima di accedere ad una procedura concorsuale, il titolare dell’impresa trasferisce a terzi l’azienda o un ramo di essa, con conseguente prosecuzione dei rapporti di lavoro subordinato pendenti alla data del trasferimento alle dipendenze del cessionario. Costituisce infatti prassi piuttosto diffusa e consolidata quella secondo la quale, una volta intervenuto il fallimento del datore di lavoro cedente, i lavoratori subordinati il cui rapporto di lavoro è proseguito alle dipendenze del cessionario presentano la domanda di ammissione al passivo del fallimento del cedente per tutti i crediti maturati fino alla data del trasferimento, ivi compresa la quota di trattamento di fine rapporto (TFR), e che per tale ultimo credito (così come per il credito relativo alle ultime tre mensilità di retribuzione maturate alle dipendenze del cedente poi fallito, ove non pagate da quest’ultimo), sulla scorta dell’avvenuta ammissione al passivo della procedura, formulino domanda di pagamento al Fondo di garanzia istituito presso l’Istituto nazionale della previdenza sociale (Inps); in tal caso le sedi provinciali dell’Istituto sono solite procedere alla liquidazione di quanto risulta ammesso al passivo del fallimento. Tale prassi rischia oggi di essere preclusa dal decisum delle sentenze in rassegna, posto che esse negano decisamente, in caso di trasferimento d’azienda e conseguente prosecuzione dei rapporti di lavoro alle dipendenze del cessionario, l’ammissibilità del credito per le quote di TFR già maturate al passivo del fallimento del datore di lavoro cedente.

Il percorso argomentativo dei giudici di legittimità si sviluppa sostanzialmente attraverso tre snodi fondamentali: (i) il momento in cui giunge a maturazione il credito del dipendente per il trattamento di fine rapporto e le conseguenze che ciò comporta in merito all’ammissibilità del credito al passivo della procedura fallimentare; (ii) la natura giuridica dell’obbligazione di pagamento posta a carico del Fondo di Garanzia istituito presso l’Inps ai sensi della legge n. 297 del 1982, art. 2; (iii) la possibilità o meno in capo all’Inps di sindacare la sussistenza dell’obbligo di pagamento a carico del Fondo di Garanzia quando il credito del dipendente sia stato ammesso al passivo della procedura fallimentare.  Sostiene infatti la Suprema Corte che risulta necessario, affinché sorgano i presupposti per l’intervento del Fondo, che: a) sia venuto ad esistenza l’obbligo di pagamento del t.f.r. fissato dall’art. 2120 c.c. in capo al datore di lavoro; b) egli, in tale momento, si trovi in stato di insolvenza; c) sia intervenuta la cessazione del rapporto di lavoro. Così argomentando, giunge ad escludere la possibilità, per il lavoratore, di ottenere l’ammissione del proprio credito per le quote di TFR maturate fino alla data di cessione dell’azienda (che abbia comportato la prosecuzione del rapporto di lavoro intercorrente con tale lavoratore alle dipendenze del cessionario) al passivo del fallimento, poi intervenuto, del datore di lavoro cedente.

Tali considerazioni necessiterebbero però di maggiore chiarezza nel distinguere fra esistenza del credito ed esigibilità di esso: un conto è accertare l’esistenza o meno di un diritto di credito (risultato al quale si può pervenire appunto con una domanda di mero accertamento), altro conto è chiedere la condanna del debitore al pagamento di esso (questa sì domanda che presuppone l’esigibilità del credito). In altri termini, se è indiscutibile che il diritto al “pagamento” del trattamento di fine rapporto sorge solo al momento della cessazione del rapporto di lavoro (fatto storico che rende esigibile il credito), diversi sono i termini della questione per ciò che riguarda l’individuazione del momento in cui il credito per trattamento di fine rapporto viene ad esistere, ancorché non sia ancora esigibile. D’altra parte, la stessa Corte di Cassazione ha affrontato espressamente la questione afferente alla distinzione fra il diritto al pagamento del TFR, che matura solo alla data di cessazione del rapporto di lavoro (con conseguente decorrenza del termine di prescrizione solo da tale data) ed il diritto all’accertamento delle quote di trattamento di fine rapporto maturate ad una certa data, che può essere esercitato anche in pendenza del rapporto di lavoro (Cass. civ.  Sez. lavoro n. 11778 del 12/07/2012); non solo, ma i giudici di legittimità hanno anche affrontato (Cass. Sez. lav. n. 18501 del 4/7/2008) un altro aspetto della questione rilevante anche ai fini qui in discussione, e cioè quello del (perdurante) obbligo di pagamento del trattamento di fine rapporto in capo al datore di lavoro cedente, limitatamente all’importo del credito maturato alla data della cessione, qualora il rapporto di lavoro prosegua alle dipendenze di altro soggetto in conseguenza di trasferimento d’azienda. Stabilisce a tal fine il secondo comma dell’articolo 2112 c.c., com’è noto, che “Il cedente ed il cessionario sono obbligati, in solido, per tutti i crediti che il lavoratore aveva al tempo del trasferimento”, e tale disposizione trova pacificamente applicazione anche con riferimento al credito del lavoratore trasferito per il trattamento di fine rapporto. Ciò che la norma non chiarisce espressamente è chi risulti essere l’obbligato principale per il debito nei confronti del lavoratore con riferimento ai diversi periodi, quello “ante cessione” e quello “post cessione”; ma in proposito l’orientamento della giurisprudenza sia di legittimità sia di merito sembra ormai consolidato nell’affermare che «in caso di cessione d’azienda assoggettata al regime di cui all’art. 2112 cod. civ., posto il carattere retributivo e sinallagmatico del trattamento di fine rapporto che costituisce istituto di retribuzione differita, il datore di lavoro cedente rimane obbligato nei confronti del lavoratore suo dipendente, il cui rapporto sia proseguito con il datore di lavoro cessionario, per la quota di trattamento di fine rapporto maturata durante il periodo di lavoro svolto fino al trasferimento aziendale, mentre il datore cessionario è obbligato per la stessa quota solo in ragione del vincolo di solidarietà, e resta l’unico obbligato quanto alla quota maturata nel periodo successivo alla cessione». Da tale assunto la Suprema Corte ha altresì tratto la conclusione che il lavoratore è legittimato ad agire in giudizio (ed è portatore dell’interesse processuale a farlo) nei confronti del datore di lavoro cedente per ottenere l’accertamento del proprio credito nei confronti di esso, e financo a proporre istanza di fallimento del datore di lavoro cedente.

In presenza degli orientamenti or ora richiamati le sentenze del secondo semestre 2018, pur affermando di volerli condividere giungono poi alla conclusione secondo la quale “il diritto al trattamento di fine rapporto (TFR) sorge con la cessazione del rapporto di lavoro (Cass. n. 2827 del 2018 cit.; Cass. 23 aprile 2009, n. 9695) ed in quanto credito non esigibile al momento della cessione dell’azienda – quello avente ad oggetto il t.f.r. fino a quel momento maturato – non può essere ammesso al passivo del fallimento del datore di lavoro cedente”; con ciò, dunque, affermando che l’esigibilità del credito costituisce requisito imprescindibile affinché tale credito possa essere ammesso al passivo del fallimento.

Con particolare riferimento ai profili riguardanti l’intervento del Fondo di Garanzia Inps, le sentenze sopra menzionate rilevano che non è preclusa all’Inps anche la possibilità di contestare l’esistenza dei presupposti richiesti dalla disciplina normativa affinché l’obbligo di garanzia a carico del Fondo venga a giuridica esistenza. Posto che essi sono “interni alla stessa autonoma fattispecie previdenziale”, in sostanza, secondo la Suprema Corte, dall’autonomia dell’obbligazione gravante sul Fondo non può automaticamente trarsi la conclusione secondo la quale l’accoglimento della domanda di ammissione al passivo presentata dal lavoratore determini l’impossibilità per l’Inps di contestare la sussistenza, nel caso specifico, “degli elementi previsti dalla stessa fattispecie di cui alla L. 29 maggio 1982, n. 297, art. 2, ed al d.lgs. n. 82 del 1990, art. 2”. Proprio dalla formulazione letterale di tali norme infatti, secondo l’analisi dei giudici di legittimità, occorre trarre la conclusione secondo la quale è consentito all’Inps di sollevare contestazioni, pur in caso di avvenuta ammissione del credito al passivo fallimentare, basate sull’insussistenza dei presupposti normativi affinché l’obbligo a carico del Fondo venga ad esistenza.

É utile evidenziare, a tale proposito che l’articolo 2, comma 1, della legge 297/1982 afferma espressamente che “È istituito presso l’Istituto nazionale della previdenza sociale il «Fondo di garanzia per il trattamento di fine rapporto» con lo scopo di sostituirsi al datore di lavoro in caso di insolvenza del medesimo nel pagamento del trattamento di fine rapporto, di cui all’articolo 2120 del codice civile, spettante ai lavoratori o loro aventi diritto”: la norma prevede quindi l’intervento del Fondo di Garanzia per sostituirsi al datore di lavoro nel pagamento del trattamento di fine rapporto di cui all’art. 2120 c.c. solo nel caso in cui sia lo stesso datore di lavoro ad essere divenuto insolvente; e siccome l’articolo 2120 prevede l’insorgere dell’obbligo di pagamento (solo) al momento in cui cessa il rapporto di lavoro, la conclusione alla quale giungono le pronunce sopra menzionate è nel senso che l’intervento del Fondo di Garanzia non può che essere invocato per il pagamento del trattamento di fine rapporto divenuto esigibile, ai sensi dell’art. 2120 c.c., per cessazione del rapporto alle dipendenze del datore di lavoro assoggettato a fallimento; con il corollario in forza del quale l’insussistenza di tale presupposto può essere fatta valere dall’Inps per contestare l’obbligo a carico del Fondo di Garanzia anche nell’ipotesi in cui il credito sia stato regolarmente ammesso al passivo del fallimento.

Ciò detto, occorre al tempo stesso segnalare che l’esperienza applicativa si è spesso orientata in senso diverso; è infatti piuttosto diffusa la prassi, pur in presenza di trasferimento d’azienda e di conseguente prosecuzione del rapporto di lavoro alle dipendenze del cessionario, di ammettere al passivo del fallimento del datore di lavoro cedente l’importo del TFR maturato alle dipendenze di esso, pur risultando il relativo credito non esigibile in considerazione della prosecuzione del rapporto di lavoro, e di consentire poi al dipendente di ottenere dal Fondo di Garanzia il pagamento del credito così come ammesso al passivo fallimentare. Il portato “benefico” di tale prassi è di tutta evidenza: essa consente infatti di “sgravare”, in occasione del trasferimento, l’azienda del datore di lavoro fallito dal debito relativo al complessivo importo del trattamento di fine rapporto maturato a favore dei lavoratori addetti all’azienda (o al ramo di essa) oggetto di trasferimento, rendendola con  ciò  più  “appetibile”  per  l’acquirente e facilitandone così la circolazione. Ma tale prassi non risulta più percorribile alla luce dell’orientamento recentemente espresso dalla Cassazione, posto che non è consentito accedere al Fondo di Garanzia per ottenere il pagamento di un TFR relativo ad un rapporto di lavoro che, per effetto del trasferimento d’azienda, è proseguito alle dipendenze di un soggetto diverso dal datore di lavoro assoggettato a procedura fallimentare. Così stando le cose, non c’è dubbio che si “alleggerisce” il Fondo di Garanzia dell’Inps da un onere di pagamento che verosimilmente ad esso non compete in termini di stretto diritto, e che altrettanto verosimilmente non rientra fra i suoi compiti istituzionali. Al tempo stesso, però, si rischia di rendere molto più difficile (se non addirittura impossibile, in certi casi), il trasferimento a terzi di quella parte dell’organizzazione imprenditoriale il cui titolare è in crisi che ancora ha prospettive di proficua prosecuzione, con ciò pregiudicando la salvaguardia dei posti di lavoro ad essa afferenti.

Delle conseguenze sopra menzionate in materia di circolazione delle aziende nell’ambito delle procedure concorsuali ha evidentemente tenuto conto il Legislatore nell’occuparsi della riforma delle procedure concorsuali. Ed infatti il d.lgs. 12 gennaio 2019, n. 14, “Codice della crisi d’impresa e dell’insolvenza in attuazione della legge 19 ottobre 2017, n. 155”, interviene in argomento con l’articolo 368 comma 4, che prevede l’inserimento nel corpus dell’articolo 47 della legge 428/1990, dopo il comma 5, un comma 5-bis. Del seguente tenore: “Nelle ipotesi previste dal comma 5, non si applica l’articolo 2112, comma 2, del codice civile e il trattamento di fine rapporto è immediatamente esigibile nei confronti del cedente dell’azienda. Il Fondo di garanzia, in presenza delle condizioni previste dall’articolo 2 della legge 29 maggio 1982, n. 297, interviene anche a favore dei lavoratori che passano senza soluzione di continuità alle dipendenze dell’acquirente; nei casi predetti, la data del trasferimento tiene luogo di quella della cessazione del rapporto di lavoro, anche ai fini dell’individuazione dei crediti di lavoro diversi dal trattamento di fine rapporto, da corrispondere ai sensi dell’articolo 2, comma 1, del decreto legislativo 27 gennaio 1992, n. 80. I predetti crediti per trattamento di fine rapporto e di cui all’articolo 2, comma 1, del decreto legislativo 27 gennaio 1992, n. 80 sono corrisposti dal Fondo di Garanzia nella loro integrale misura, quale che sia la percentuale di soddisfazione stabilita, nel rispetto dell’articolo 85, comma 7, del codice della crisi e dell’insolvenza, in sede di concordato preventivo”.

Tale norma introduce quindi espressamente un regime giuridico del tutto opposto a quello patrocinato dalla sentenza in commento, posto che sancisce espressamente l’immediata esigibilità del trattamento di fine rapporto pur in presenza della prosecuzione del rapporto di lavoro alle dipendenze del cessionario dell’azienda il cui titolare è assoggettato a procedura concorsuale, ed al tempo stesso impone l’intervento del Fondo di Garanzia anche a favore dei lavoratori il cui rapporto di lavoro sia proseguito. Una scelta che, con tutta evidenza, ci consegna una situazione giuridica nell’ambito della quale l’azienda risulta senza dubbio più “appetibile” per il possibile acquirente, che si troverà nelle condizioni di acquistarla “al netto” del debito per il trattamento di fine rapporto già maturato alle dipendenze del trasferimento fino alla data di esso.

*Avvocato in Bologna

 

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