D.P.R. 177/2011 e le buone prassi per la sicurezza

di Adriano Paolo Bacchetta * 

Era il 26 ottobre 2011 quando, nell’aula Di Donato del Politecnico di Milano davanti a oltre 270 persone, si svolgeva il Primo Convegno Nazionale sulle attività negli Spazi Confinati (o ambienti sospetti di inquinamento o confinati come definiti dal d.p.r. 177/2011) dal titolo “Confined Space or Black Hole – Conoscere, valutare, gestire i rischi negli spazi confinati per non lavorare in un buco nero”. Scopo dichiarato dell’evento, era quello di creare le condizioni perché fosse possibile raccogliere e condividere l’esperienza dei portatori di reali conoscenze e interesse, in modo da poter identificare azioni efficaci e procedure operative da condividere e sviluppare grazie alla collaborazione di tutti. Da allora, ogni anno, l’evento è stato replicato e, attualmente, rappresenta uno degli strumenti più interessanti e fruibili per un pubblico ampio e diversificato, in quanto evento capace di portare all’attenzione degli operatori di settore, in maniera ragionata e coordinata, un insieme di esperienze consolidate a livello nazionale e internazionale nell’ambito di una sorta di vetrina facilmente consultabile da un pubblico relativamente ampio di soggetti interessati.

Ma cos’è cambiato in relazione all’applicazione del d.p.r. 177/2011 da allora? Purtroppo, molto poco. Se ad esempio si considera che, ancora oggi, non è previsto un contesto legislativo che disciplini in modo puntuale le attività d’informazione-formazione specificamente mirate alla conoscenza dei fattori di rischio propri delle attività lavorative in ambienti sospetti di inquinamento o confinati, (art. 2 C1 lettera d), e inoltre tenuto conto dell’indeterminazione ancora presente su molti aspetti applicativi del Decreto e i relativi dubbi e problemi per le imprese chiamate ad applicarlo, è ovvio concludere che c’è ancora molto lavoro da fare.

Fin dalla prima edizione del Convegno Nazionale, ho espresso la mia convinzione che per ridurre in futuro il ripetersi di questo tipo d’incidenti è necessario attingere all’esperienza di chi si è già dovuto confrontare operativamente con le problematiche delle attività negli “spazi confinati”, per definire strumenti concettuali e operativi adeguati per eseguire un’approfondita e corretta valutazione dei rischi, identificare un percorso di addestramento efficace, prevedere l’impiego di attrezzature idonee e pianificare gli scenari di emergenza codificando le operazioni da porre in essere, anche riferendosi a quanto elaborato a livello internazionale che, purtroppo, risulta essere per lo più ancora scarsamente noto agli addetti. Ma poco di quanto sopra, purtroppo, risulta realmente applicato.

Ancora oggi c’è chi è alla ricerca di una metodica univoca che porti alla definizione puntuale di “ambiente sospetto di inquinamento o confinato” a prescindere da una specifica e precisa analisi e valutazione del rischio. Una sorta di sistema “ascisse/ ordinate” dove semplicemente ricercando l’intersezione delle linee tracciate parallelamente agli assi chiunque, anche con limitata esperienza sul tema, possa determinare se l’ambiente oggetto di analisi rientri, o meno, nel campo di applicazione del d.p.r. 177/2011. Ma, ovviamente, questo non risponde ad altro che alla ricerca di una mera applicazione formale del Decreto funzionale alla redazione di documentazione da poter presentare, in caso di verifica, ai funzionari degli Organi di vigilanza, prescindendo da un’effettiva ed efficace analisi delle attività previste e del contesto operativo in cui si è chiamati a operare. Bisogna, invece, iniziare dalla valutazione della conformazione strutturale di molti luoghi di lavoro (serbatoi con passo d’uomo avente dimensioni limitate, vasche profonde con difficile accesso, ecc.), per arrivare all’individuazione di eventuali ulteriori rischi specifici associabili o prevedibili in funzione degli agenti chimici presenti e/o introdotti in funzione delle lavorazioni previste che, nel complesso, vadano ben oltre una semplice valutazione dei rischi standardizzata e non contestualizzata. Adottare un diverso percorso rappresenta, in generale, un grave errore. Diverse sono le fonti alle qualici si può riferire per analizzare il problema specifico, basti pensare alle diverse Guidelines, Best Practices / Approved Code of Practice (ACOP), Indicazioni Operative, ecc. che sono disponibili. Molti di questi documenti, sebbene siano facilmente reperibili, devono essere correttamente interpretati e applicati considerando che non possono, né devono, costituire modalità operative semplicemente e direttamente replicabili ma, e soprattutto, devono portare chi ne applica i principi a definire un proprio schema di analisi tecnico/operativa approfondita dello specifico ambito oggetto di analisi.

è, infatti, basilare contestualizzare la fase di analisi e individuazione delle misure di prevenzione/protezione rispetto alla legislazione cogente e alle norme di buona tecnica applicabili alla situazione operativa, attivando quei percorsi di critica costruttiva che, attraverso successivi passaggi di affinamento in grado di consentirne l’evoluzione, permettono di migliorare l’applicazione di una qualsiasi buona pratica. Infatti, quanto reperibile nel web, rappresenta certamente una utile fonte d’informazioni in grado di aiutare tutti i soggetti comunque interessati (datori di lavoro, supervisori e gli stessi lavoratori) a riconoscere i pericoli ponendo in essere adeguate misure di gestione e controllo del rischio e dei comportamenti individuali in modo da proteggere la salute e la sicurezza di tutti i membri dell’organizzazione e per prevenire gli infortuni. Questo, però, solo se i principi e le informazioni ivi contenute sono interpretati e correttamente applicati. Inoltre, negli anni, le indicazioni ricevute a seguito di note ministeriali o risposte a interpelli, non hanno certo sgombrato il campo dai dubbi. L’obiettivo attuale è quello di consolidare le attività di una “comunità di pratica”, in grado di condividere tali informazioni così da poter elaborare una modalità operativa comune. Le “comunità di pratica”, da anni si sono affermate nel mondo come aggregazioni informali composte da “attori” che condividono interessi e problematiche comuni per collaborare, promuovere, discutere e confrontarsi su questioni correlate ai diversi interessi dei componenti. Diverse sono queste aggregazioni che sono nate in maniera spontanea, sorgendo intorno a specifiche tematiche e al proprio interno sono stati sviluppati fenomeni di solidarietà organizzativa verso i problemi. In questi contesti, infatti, i membri condividono scopi, saperi pratici, significati, linguaggi e, in questo modo, generano forme di organizzazione caratterizzate da tratti peculiari e distintivi. “Le comunità di pratica sono gruppi di persone che condividono un interesse, dei problemi o una passione per un argomento e che approfondiscono le proprie conoscenze e abilità interagendo ed evolvendo insieme” (Wenger; 1998). Questo noto che “l’assetto istituzionale, fondato sull’organizzazione e circolazione delle informazioni, delle linee guida e delle buone pratiche, nasce dalla consapevolezza della necessaria conoscenza di informazioni e indicatori per definire priorità, per mirare azioni, per valutare risultati, ma anche ai fini generali d’informazione, comunicazione, socializzazione delle conoscenze ed educazione alla sicurezza e alla salute1”. Ciò premesso, affermata sia l’importanza dell’attività di cooperazione, coordinamento e informazione reciproca delle imprese coinvolte, sia la necessità di verificare che la catena degli appalti e subappalti non porti aziende o lavoratori autonomi a eseguire attività per le quali non sono né preparati né attrezzati, la questione è una sola: la necessità di una valutazione dei rischi mirata e approfondita seguita da un addestramento specifico e dall’utilizzo di strumentazioni e attrezzature idonee sia per la sicurezza nelle attività ordinarie sia per gli scenari di emergenza ovviamente codificando le operazioni da porre in essere in entrambe le situazioni.

Oltre a quanto sopra, è però necessario anche attuare interventi che, oltre a rendere realmente efficaci le attività di informazione/ formazione – addestramento, possano contribuire a neutralizzare o a ridurre al minimo il verificarsi di comportamenti caratterizzati da inosservanza di norme operative o regolamentari, o dal porre in essere comportamenti non conformi alle comuni pratiche di sicurezza, spostando l’attenzione di tutta l’organizzazione verso la condivisione diffusa dei “valori” della sicurezza.

1 Michele Tiraboschi, Lorenzo Fantini – Il testo unico della salute e sicurezza sul lavoro dopo il correttivo (D.Lgs. n.106/2009), Edizioni 81-2008.

* Ordine Ingegneri Milano – Coordinatore spazioconfinato.it

 

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