I rapporti di lavoro nel concordato preventivo
di Luisella Fontanella*
Al momento della proposta di concordato i contratti di lavoro non necessariamente devono essere risolti; nel caso in cui ogni attività dell’impresa venisse a cessare, si potrebbe anzi creare un pregiudizio al patrimonio aziendale, con conseguente lievitazione dei costi a scapito delle aspettative dei creditori.
L’eventuale risoluzione dei rapporti di lavoro era già osteggiata dalle disposizioni di cui all’art. 2119 c.c., che escludono esplicitamente che il fallimento (e il concordato preventivo) possano costituire giusta causa di licenziamento, così come poi viene confermato anche in caso di cessione o trasferimento di ramo d’azienda dall’art. 2112 c.c.
Nelle situazioni in cui la continuazione dell’attività dell’impresa comporta un esubero del personale dipendente, il debitore o il commissario giudiziale, a seguito della ridotta attività aziendale, si vedono costretti alla cessazione dei rapporti di lavoro, ma per “per giustificato motivo oggettivo” con applicazione delle previsioni di cui all’art. 2118 c.c. (e, quindi, col riconoscimento dell’indennità di mancato preavviso). Ai sensi dell’art. 161 legge fallimentare, con il concordato preventivo viene proposto un piano di risanamento contenente la descrizione analitica delle modalità e dei tempi di adempimento della proposta che dovrà prevedere delle nuove prospettive di sostenibilità dell’iniziativa economica e, di conseguenza, definire l’eventuale dismissione di attività non strategiche o non remunerative, con conseguente possibile evidenza del personale in esubero. Qualora sia prevista una ristrutturazione dell’attività e, di conseguenza, emergano esuberi negli organici, dovrebbero essere definite già in questa fase le modalità, i tempi ed i costi per la cessazioni dei rapporti. Nel caso in cui si propenda per l’utilizzo della Cassa integrazione straordinaria dovranno essere intraprese le procedure e previsti i tempi e calcolati i costi. La riforma Fornero ha introdotto rilevanti modifiche alla disciplina dei licenziamenti collettivi dettata dalla legge n. 223/1991, artt. 4 e 24. Eventuali vizi della comunicazione di apertura della procedura di licenziamento collettivo non determinano più automaticamente l’inefficacia dei recessi intimati a conclusione della procedura stessa, atteso che l’art. 1, comma 45, della legge n. 92/2012 prevede espressamente che tali vizi possano essere sanati, ad ogni effetto di legge, nell’ambito dall’accordo sindacale eventualmente concluso nel corso della procedura.
Senza l’accordo sindacale, però, tutta la procedura ed i successivi licenziamenti saranno inefficaci; viene da chiedersi a questo punto chi è il responsabile dell’inefficacia dei licenziamenti, chi se ne accollerebbe il debito e quali garanzie hanno i creditori.
A questo proposito di grande attualità è la decisione della Corte di Giustizia dell’Unione Europea che con la sentenza 13 febbraio 2014 – Causa C-596/12 ha ritenuto illegittimo l’esclusione dei dirigenti dalle procedure di mobilità in quanto non in linea con la direttiva 98/59/CE sul ravvicinamento delle legislazioni degli Stati membri in materia di licenziamenti collettivi. La procedura da seguire per i licenziamenti collettivi è quella prevista negli art. 4 e 5 L. 223/91 in materia di mobilità, cui l’art. 24 rinvia. Tale procedura si articola in una fase sindacale e in una successiva fase in sede amministrativa.
La fase sindacale si deve aprire con la preventiva comunicazione ai soggetti che il legislatore ha ritenuto idonei a svolgere un’adeguata funzione di controllo sociale: le rappresentanze sindacali e le rispettive associazioni di categoria, nonché l’autorità Regionale o Provinciale competente e la Direzione Territoriale del Lavoro.
Tale comunicazione deve contenere informazioni relative ai motivi che determinano gli esuberi, ai motivi tecnici ed organizzativi in base ai quali si ritiene di non poter evitare la riduzione del personale dipendente neppure adibendoli ad altre mansioni.
Esaurite le fasi sindacale ed amministrativa il datore di lavoro può legittimamente intimare il recesso ai lavoratori in esubero, ma durante tutto questo periodo di tempo i costi del personale restano a carico dell’impresa che non potrà neppure attivare l’intervento della Cassa integrazione guadagni ordinaria, per contrarietà dei presupposti della medesima con gli annunciati esuberi strutturali.
Diventa di grande importanza la conoscenza della normativa sul lavoro da parte del professionista incaricato della redazione del piano. Bisogna rendersi conto del fatto che la realizzazione di un piano non è materia di carattere eminentemente contabile: la gestione del personale dipendente, la valutazione della bontà dei contratti di collaborazione a progetto o di consulenze con soggetti titolari di partita IVA mono- committenza è ormai diventato un aspetto critico di particolare rilevanza.
Anche altre sono, quindi, le professionalità ora necessarie al dottore commercialista, in primis quelle attinenti al diritto del lavoro per poter coadiuvare l’impresa fin dalle prime fasi valutative e ad intervenire, in seguito, per un obiettivo di salvataggio dell’impresa e non solo per l’esecuzione corretta degli adempimenti previdenziali.
*Referente del Gruppo Lavoro e Previdenza ODCEC Torino
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