La “tenuta” degli accordi di prossimità in sede giudiziale. Primi orientamenti della Corte di Cassazione nella Sentenza del 22 Luglio 2019 n. 19660
di Fabrizio De Angelis*
Al di là delle varie questioni risolte dalla Corte nella sentenza del 22 luglio 2019 n.19660 in esame, desta particolare attenzione quella relativa alla possibilità, riconosciuta alla c.d. “contrattazione di prossimità”, di derogare rispetto al diritto dei lavoratori al preavviso, nel caso di recesso dal rapporto di lavoro in condizioni di crisi aziendale.
Più in particolare, la Corte ha ritenuto legittimo l’accordo aziendale con il quale le parti sociali avevano previsto che, i lavoratori che, pur avendone i requisiti, non avessero aderito all’esodo incentivato – ove destinatari, nella successiva procedura di mobilità, di un provvedimento di licenziamento – non avrebbero avuto diritto a percepire l’indennità sostitutiva del preavviso come prevista dalla contrattazione collettiva.
L’Accordo di prossimità, esaminato dalla Corte, era stato sottoscritto richiamando l’art. 8, commi 1, 2 e 2-bis, del d.l. 13 agosto 2011, n. 138, come convertito, con modificazioni, dalla l. 14 settembre 2011, n. 148, norma che prevede la possibilità per i contratti collettivi di lavoro, sottoscritti anche a livello aziendale o territoriale, di realizzare specifiche intese con efficacia nei confronti di tutti i lavoratori in deroga alla contrattazione collettiva nazionale di lavoro e alla legge.
Più in particolare, l’art. 8, comma 1, prima parte, indica la nozione di “contratto di prossimità” e specifica l’efficacia erga omnes dello stesso.
Sono tali quei contratti collettivi di lavoro sottoscritti a livello aziendale o territoriale da organizzazioni sindacali dei lavoratori comparativamente più rappresentative sul piano nazionale o territoriale ovvero dalle loro rappresentanze sindacali operanti in azienda, ai sensi della normativa di legge e degli accordi interconfederali vigenti.
L’art. 8, comma 1, seconda parte, detta tassativamente le finalità che devono essere perseguite dalle specifiche intese le quali, in effetti, devono essere finalizzate a perseguire obiettivi di: maggiore occupazione, qualità dei contratti di lavoro, adozione di forme di partecipazione dei lavoratori, emersione del lavoro irregolare, investimenti e avvio di nuove attività.
Il comma 2 dell’art. 8 del d.l. n. 138/2011, lett. a)-d), e prima parte della lett. e), precisa i contenuti regolatori delle intese modificative le quali, dunque, possono riguardare la regolazione delle materie inerenti all’organizzazione del lavoro e della produzione con riferimento tassativo a: impianti audiovisivi e introduzione di nuove tecnologie; mansioni del lavoratore, classificazione e inquadramento del personale; contratti a termine; contratti a orario ridotto, modulato o flessibile; regime della solidarietà negli appalti; casi di ricorso alla somministrazione di lavoro; disciplina dell’orario di lavoro; modalità di assunzione; disciplina del rapporto di lavoro, comprese le collaborazioni coordinate e continuative o quelle etero-organizzate e le partite IVA; trasformazione e conversione dei contratti di lavoro.
Nell’art. 8, comma 2, lett. e), seconda parte, invece, trova spazio la previsione normativa relativa alle conseguenze dei licenziamenti, laddove si prevede che le specifiche intese possono riguardare anche le conseguenze del recesso dal rapporto di lavoro.
Fanno però eccezione assoluta le ipotesi di cessazione del rapporto per: licenziamento discriminatorio, licenziamento della lavoratrice in concomitanza del matrimonio, licenziamento della lavoratrice dall’inizio del periodo di gravidanza fino al termine dei periodi di interdizione al lavoro, nonché fino ad un anno di età del bambino, licenziamento causato dalla domanda o dalla fruizione del congedo parentale e per la malattia del bambino da parte della lavoratrice o del lavoratore, licenziamento in caso di adozione o affidamento.
E’ proprio rispetto a tale ultima ipotesi di cessazione del rapporto di lavoro che si innesta la sentenza della cassazione di luglio scorso. Un arresto della Corte che certamente non lascerà indifferenti i giuridici di merito che nei prossimi mesi si dovranno confrontare con il diritto soggettivo dei lavoratori, destinatari dell’accordo di prossimità, di contestare la validità delle clausole derogatorie peggiorative della contrattazione nazionale o della disciplina legale e di sottoporla al vaglio giudiziale di legittimità per violazione dei limiti previsti dall’art. 8.
Nel caso in esame, il lavoratore aveva impugnato, per violazione dell’art. 8 comma 2 bis del decreto legge, un accordo sottoscritto successivamente all’entrata in vigore della norma, con il quale un noto istituto di credito e le OO.SS avevano disciplinato le modalità di accesso all’esodo volontario al quale sarebbe poi seguita la procedura di licenziamento collettivo. Nel medesimo accordo era stato stabilito che l’azienda non avrebbe riconosciuto “alcun trattamento sostitutivo a titolo di mancata effettuazione del preavviso” per coloro i quali, non avendo aderito all’esodo volontario, sarebbero poi stati destinatari di un licenziamento nell’ambito della predetta procedura di mobilità.
Il medesimo Accordo era stato poi richiamato in tutte le sue proposizioni – ed anche nella previsione dell’esclusione dell’indennità sostitutiva del preavviso – da quelli che si erano poi succeduti nel tempo e da ultimo in quello raggiunto nell’ambito di una procedura di mobilità, ai sensi dell’art. 4 della legge n. 223 del 1991, all’esito della quale la società ha comunicato al lavoratore il licenziamento.. In tale contesto, la Corte ha ritenuto che “sussistevano pertanto le condizioni, previste dalla citata norma, per derogare ed incidere sulle conseguenze del recesso dal rapporto di lavoro. La deroga, infatti, era stata introdotta proprio per far fronte a una ben nota situazione di crisi aziendale ed occupazionale. L’accordo derogatorio, trasfuso nell’accordo raggiunto nell’ambito della procedura di mobilità, non si pone in contrasto con principi dettati nella Carta Costituzionale né viola vincoli derivanti da normative comunitarie e da convenzioni internazionali sul lavoro (…)Si tratta, in definitiva, di una procedura che, pur recependo una clausola con la quale si è esclusa l’erogazione dell’indennità sostitutiva del preavviso, è stata, tuttavia, caratterizzata da una chiara indicazione dei requisiti per l’individuazione dei potenziali destinatari, il che ha consentito loro di valutare ed apprezzare i rischi delle scelte individualmente adottate. In sostanza l’Accordo con il quale è recepita la clausola si mantiene in quella prospettiva di maggior tutela dei lavoratori al fine di assicurare un minor costo sociale dell’operazione e di salvaguardare la prosecuzione dell’attività d’impresa e la relativa occupazione secondo le finalità cui è diretta la stessa legge n. 223 del 1991 (cfr. al riguardo CEISS. 03/11/2016 n. 22789).
La sentenza riapre così l’interessante dibattito dottrinale sorto all’indomani dell’introduzione della legge n. 148 del 2011 e del conseguente ampliamento della capacità derogatoria della contrattazione di prossimità; uno strumento, questo, che non è stato esente da critiche da parte di chi ha visto nel suo utilizzo una sorte di grimaldello utile solo per scardinare il sistema di tutele dei lavoratori.
Di contro, la stessa contrattazione aziendale derogatoria è stata positivamente valutata come una coerente possibilità per flessibilizzare il mercato del lavoro attraverso la cooperazione delle parti sociali coinvolte, così come è accaduto anche all’indomani dell’introduzione del d.lgs n. 81 del 2015.
Insomma, certamente, una sentenza che costituisce uno spunto di riflessione su di un istituto al quale le imprese – e le parti sociali più in generale – guardano con la giusta attenzione, ma forse, a volte, ancora con eccessiva diffidenza.
Vi è da dire che da quando è stata introdotta la norma non sono certo mancate le contrapposizioni dottrinali sulla dirompente possibilità concessa alla contrattazione di prossimità di derogare (anche in peius) alla contrattazione nazionale, ma anche di introdurre deroghe alla disciplina legale del rapporto di lavoro, con una forza tale da esorbitare dal tradizionale confine della efficacia soggettiva della contrattazione collettiva.
Sebbene, le più rilevanti questioni sollevate dalla dottrina abbiano già superato, con valutazione di conformità, il giudizio di costituzionalità, con la sentenza della Corte Costituzionale del 4 ottobre 2012, n. 221, la formulazione stessa dell’art. 8 non rende esenti gli accordi di prossimità dal controllo giudiziale, stante la necessità di verificare il rispetto dei requisiti.
Un controllo che deve avvenire attraverso il vaglio giudiziario delle intese di prossimità stipulate dalle parti sociali, sia in ordine alla misura adottata in funzione dell’obiettivo prefissato in linea con le finalità previste dal comma 1, seconda parte, sia con riferimento al rispetto delle materie “inerenti l’organizzazione del lavoro e della produzione” indicate nel successivo secondo comma, sia infine rispetto ai principi costituzionali e delle convenzioni internazionali, così come previsto dal comma 2 bis.
Le parti sociali, ed i loro consulenti ed esperti, quindi, dovranno lavorare per delineare gli accordi di prossimità con particolare attenzione, non tralasciando di considerare ogni aspetto della normativa affinché l’intesa possa essere ritenuta legittima dai Giudici del Lavoro, in particolar modo quando siano stati previsti, come nella sentenza esaminata, accordi peggiorativi per i lavoratori.
*Avvocato in Roma
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