La tutela della maternità e risvolti socio economici nel XXI secolo
di Gaia Davini*
“Una barca a vela e una donna incinta, sono le due più belle cose che possono essere viste”, così scriveva Benjamin Franklin ormai più di tre secoli fa e per quanto le sue parole siano tutt’oggi attuali, la maternità di una donna ancora di più se giovane e all’inizio della propria carriera lavorativa, porta con se grandi problematiche che corrono trasversalmente dalla sfera personale e privata a quella pubblica e lavorativa, per scivolare giù fino in fondo alla colonna portante della società.
Ma questa condizione tanto meravigliosa si scontra con strutture, convinzioni sociali e morali che ancora oggi, nel ventunesimo secolo, sono dure a morire e che finiscono per trasformarla in un problema più che in un’opportunità per la donna e per l’intera società. L’idea, radicata e diffusa che la cura dei figli debba essere demandata prevalentemente alla madre, fino al punto di ritenere che nei primi anni di vita i bambini abbiano necessità di una presenza quasi costante della stessa finisce inesorabilmente per riversare i suoi effetti sulla scelta di stipulare contratti stabili con giovani donne, comportando in molti casi la preferenza di colleghi uomini tanto più quando la posizione richieda flessibilità di orario e di movimento, responsabilità e utilizzo di competenze non facilmente sostituibili con altra persona per un periodo di tempo variamente lungo e non definibile fin dall’origine.
Quanto fin qui affermato dovrebbe far pensare che la soluzione non possa insistentemente ricercarsi in meccanismi sempre più stringenti di tutela del periodo di maternità e dei primi anni di vita del bambino che consentano sì alla madre di ottenere la tutela del proprio posto di lavoro, ma al contempo ne complicano sia l’accesso paritario sia il raggiungimento di posizioni apicali o di rilievo, per non parlare dell’uguaglianza di retribuzione rispetto ai colleghi uomini. L’inadeguatezza mostra ancora di più il suo volto se si procede ad analizzare il deludente andamento del tasso di natalità Italiano e più in generale Europeo, se si escludono i paesi scandinavi; tutto questo dovrebbe convincere il legislatore che i meccanismi di tutela della maternità incentrati quasi esclusivamente sulla tutela dei periodi di astensione e quindi su una soluzione individuale e non collettiva finiscono con il relegare la questione alla sfera privata lavoratrice-impresa e provocano distorsioni innegabili all’interno della società.
Analizzando, se pur brevemente, il sistema attuale che presenta formule e soluzioni che sicuramente sono necessarie alla corretta gestione del rapporto di lavoro in pendenza di maternità è possibile evidenziare la totale inadeguatezza di alcuni aspetti che inequivocabilmente lasciano dubbi all’operare di chi deve procedere ad assumere una giovane donna tanto più quando l’azienda è di dimensioni contenute e le sostituzioni non sempre rappresenta una reale soluzione soprattutto quando il periodo di astensione si protrae per un tempo medio lungo o quando ad un congedo ne sussegue in tempi brevi un secondo.
Il sistema di tutela ruota attorno alla D.Lgs 151/2001 come successivamente integrato e modificato dal D.Lgs 80/2015 che tutela il periodo di maternità, garantendo da un lato la posizione della madre lavoratrice, attraverso un meccanismo di nullità che colpisce il licenziamento irrogato alla stessa dall’inizio della gravidanza e fino al compimento dell’anno di vita del bambino accompagnandolo con un sistema rafforzato di convalida delle dimissioni, a cui si aggiunge dal lato economico un sistema di garanzia indennitario e previdenziale, che consente il mantenimento delle condizioni economiche del nucleo.
Il fulcro dell’intera normativa in materia di tutela della maternità e paternità ruota attorno al congedo obbligatorio di maternità, il periodo tutelato va dal secondo mese antecedente la data presunta del parto al terzo mese successivo, in questa fase, in cui è fatto divieto assoluto di adibire al lavoro le gestanti, viene riconosciuta un’indennità pari al 80% della retribuzione media globale giornaliera posta a carico dell’Inps e anticipata dal datore di lavoro. Alcuni contratti collettivi prevedono l’integrazione parziale o totale dell’indennità ponendo queste quote a totale carico del datore di lavoro. Il periodo di congedo obbligatorio può essere spostato in avanti di un mese nel rispetto della durata complessiva facendolo decorrere dal mese precedente la data presunta del parto e prorogandolo al quarto mese successivo, la facoltà di attivare il meccanismo di flessibilità è rimessa alla volontà della lavoratrice che da prima deve ottenere il nulla osta del medico del SSN e qualora l’azienda sia soggetta all’obbligo di sorveglianza sanitaria anche dal medico incaricato.
La lavoratrice dalla fine del periodo di astensione obbligatoria e fino al compimento del sesto anno di vita del bambino può chiedere di fruire di un periodo, continuativo o frazionato, per congedo parentale. La durata dello stesso non può superare i sei mesi e l’indennità riconosciuta è pari al 30 % della retribuzione media globale giornaliera. Detta indennità, corrisposta con il meccanismo dell’anticipazione dal datore di lavoro, è integralmente a carico dell’INPS.
A differenza del congedo di maternità, il congedo parentale può essere alternativamente richiesto da entrambi i genitori e per una durata cumulativa di 11 mesi, nel rispetto ciascuno del limite massimo riconosciuto dalla legge, pari a sei mesi per la madre, decorrenti dalla fine del periodo di astensione obbligatorio, ed a sette mesi per il padre, decorrenti dalla nascita del figlio.
A seguito dell’entrata in vigore del D.LGS 80/2015 la fruizione del congedo parentale è stata estesa fino al compimento del dodicesimo anno di età del figlio, tuttavia per il periodo successivo al sesto anno di età il trattamento economico spetta solo fino all’ottavo anno di età del bambino e se il reddito individuale del richiedente risulta inferiore a 2,5 volte l’importo del trattamento minimo di pensione; mentre dall’ottavo anno e fino al dodicesimo non è riconosciuta alcuna indennità.
Sempre il decreto citato ha inserito la possibilità di chiedere il congedo parentale ad ore ed ha ridotto il periodo per presentare la domanda al datore di lavoro da 15 giorni a 5 giorni; riconoscendo che la flessibilità dello strumento possa risultare estremamente utile nei nuclei famigliari, è innegabile che dal lato del datore di lavoro questo ingeneri non pochi problemi organizzativi, sia per il breve periodo di preavviso concesso al lavoratore per dare comunicazione al datore di lavoro, sia per la possibilità di alternare periodi di assenza, a periodi di presenza frazionata e a periodi di presenza piena con conseguenti difficoltà per un corretto funzionamento dell’area aziendale in cui è inserita la lavoratrice o il padre richiedente.
Alla madre lavoratrice o in alternativa al padre lavoratore, è riconosciuta anche la possibilità di chiedere di poter fruire dei riposi giornalieri noti anche come permessi per allattamento. Si tratta di un diritto azionabile su richiesta dell’interessato nel primo anno di vita del bambino; i permessi, pari a due ore nelle giornate con orario di lavoro pari o superiore a sei e di un’ora nelle giornate con orario inferiore a sei ore, prevendono la corresponsione di un’indennità a carico dell’Inps anch’essa corrisposta in anticipo dal datore di lavoro.
Durante il periodo di astensione obbligatoria e durante l’eventuale periodo di astensione anticipata il lavoratore ha diritto alla maturazione ed alla corresponsione delle mensilità aggiuntive, dei ratei di ferie e permessi e del trattamento di fine rapporto. Il periodo di astensione facoltativa e i permessi giornalieri rivestono validità ai fini del computo dell’anzianità di servizio ma non alla maturazione dei ratei di mensilità aggiuntive e di ferie.
Tutte queste soluzioni, se pur comprensibili e ragionevoli nella logica di tutela della maternità, presentano tuttavia non pochi aspetti critici che il datore di lavoro si trova necessariamente a dover valutare all’atto dell’assunzione di una donna, in particolare per l’alea che ruota intorno alle scelte che essa andrà a compiere, in un futuro più o meno lontano, legata alla lunghezza dei periodi di sospensione e riduzione, alla brevità dei periodi di preavviso che debbono essere forniti, all’incertezza circa la presenza di contemporanei e ravvicinati periodi di maternità; aspetti indubbiamente collegati sia alla scarsa presenza di strutture atte ad accogliere i bambini già dal quarto/quinto mese di vita e per una durata della giornata adeguata agli attuali tempi di lavoro, sia all’ancora indistruttibile idea che la quota maggiore del carico derivante dai figli spetti alla madre perché così “naturalmente” disposto.
Per non parlare di quegli aspetti oscuri legati al cumularsi di più norme come ad esempio la risposta parziale ed inadeguata fornita dal ministero sulla possibilità di recedere dal rapporto di apprendistato (contratto sicuramente appetibile per l’ingresso nel modo del lavoro di giovani donne) alla fine del periodo di formazione, qualora si sia contemporaneamente integrato il periodo di tutela assoluta, che rinvia l’esercizio di detto potere al compimento dell’anno da parte del bambino, dimenticandosi però di normare cosa accade da un punto di vista retributivo e contributivo al periodo ricompreso tra detti estremi.
Il problema è annoso e la soluzione non è semplice, perché modificare i sistemi di tutela oggi esistenti, anche se inadeguati e imperfetti, provocherebbe indubbiamente malesseri generalizzati e forti polemiche, facendo gridare molti commentatori alla lesione dei diritti esistenti e riconosciuti a favore del mondo datoriale, senza consentire un’analisi approfondita della reale situazione, ovvero senza consentire un serio ragionamento sul fatto se sia meglio continuare a imbrigliare il sistema con regole e vincoli che poco favoriscono giovani donne o se sia meglio iniziare ad impiegare risorse per creare strutture e garantire l’accesso alle stesse anche ai figli dei dipendenti delle aziende minori, le quali non hanno né la forza economica né la convenienza ad organizzare in proprio strutture di assistenza per i figli dei dipendenti, rendendo così realmente appetibile il rientro al lavoro fin da subito garantendo al contempo non soltanto la reale sostenibilità del reddito famigliare ma anche lo sviluppo dell’intera società.
*ODCEC Lucca
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