Le collaborazioni nell’epoca del Jobs Act

di Paolo Giorgiutti* e Mauro De Santis* 

Le collaborazioni coordinate e continuative spariranno definitivamente con il contratto a progetto? Oppure ci troveremo nuovamente a un punto di partenza? E’ la domanda che ci si pone nell’intorno della emanazione del decreto legislativo recante il testo organico delle tipologie contrattuali che, come si analizzerà di seguito, abroga la disciplina dei contratti a progetto e riconduce al lavoro subordinato tutte le collaborazioni organizzate dal committente. Prima di iniziare l’analisi del testo della norma, giova effettuare una breve ricognizione sullo sviluppo – se di sviluppo si può parlare – negli ultimi 25 anni del rapporto di lavoro para- subordinato e sulle strategie adottate dal Governo.L’introduzione di una norma previdenziale, che nel 1996 ha istituito il fondo INPS del 10 % (Gestione separata), ha reso visibile quasi un milione di posizioni lavorative di fatto già esistenti sul mercato del lavoro: i cosiddetti collaboratori coordinati e continuativi. Tale regime previdenziale ha impropriamente “legittimato” l’impiego del contratto atipico della collaborazione coordinata e continuativa, determinandone un progressivo e consistente incremento, fino a raggiungere la quota allarmante di 2.400.000 unità nel 2000.

Per la verità, già nel lontano 1993 il Governo aveva esperito un primo tentativo di estendere la previdenza obbligatoria ai para- subordinati, facendoli confluire nell’INPS e assoggettandoli a un’aliquota contributiva del 27%, ma alla fine fu costretto a ritornare sui suoi passi.

In buona sostanza, fin dai primi anni ‘90, si era manifestata principalmente l’esigenza di portare linfa alle casse dell’INPS, andando a colpire una categoria che, fino alla emana- zione della legge 335/1996, non era interessata da obblighi contributivi. Forse, al tempo, non sussisteva ancora, per contro, l’interesse a disciplinare con norme specifiche le collaborazioni coordinate e continuative. Ciò anche perché, con molta probabilità, vi era la convinzione che, trattandosi di rapporti di lavoro autonomo, per definizione non necessitassero di una particolare disciplina. Oppure potrebbe anche essere che il Legislatore si attendesse che l’introduzione di un obbligo contributivo scoraggiasse l’impiego delle suddette collaborazioni. Cosa che – come sappiamo – non si è, tuttavia, verificata, nemmeno successivamente al cospicuo innalzamento delle aliquote.

Da alcuni studi del passato, emerge che oltre la metà delle collaborazioni celavano rapporti di lavoro subordinato. Senza tra- scurare il fatto che, il reddito medio annuo dei collaboratori, sempre nel 2000, era pari a 11.600 € e un’alta percentuale di collabora- tori, pari al 59%, percepiva un reddito me- dio annuo di appena 7.500 €.

Questi dati allarmanti hanno richiesto l’assunzione di provvedimenti volti a ridurre il numero delle collaborazioni e, in questo contesto, sono state concepite la legge delega n. 30/2003 e la successiva disciplina del contratto a progetto di cui agli articoli 61 e seguenti del D.Lgs. 276/2003 (Legge Biagi).

La Legge Biagi ha rappresentato il primo intervento normativo in materia di parasubordinazione che – fino ad allora – era conosciuta solo dal “diritto vivente”, a opera della dot- trina e della giurisprudenza. L’obiettivo prioritario della riforma non rispondeva, peraltro, all’esigenza del mondo economico di introdurre nel nostro ordinamento una tipologia contrattuale, bensì si incarnava nel contrasto al lavoro precario. E si scelse di perseguire detto obiettivo imponendo una disciplina contrattuale articolata e rigida.

Il D.Lgs. 276/2003 ha “legato” il concetto di parasubordinazione a quello di progetto, introducendo questo elemento come quello necessario e imprescindibile al fine di distinguere questa tipologia di lavoro da quella subordinata. L’essenzialità del progetto specifico è stata, peraltro, rafforzata dalla pesante sanzione di cui all’art. 69, consistente, nell’ipotesi di un contratto di collaborazione coordinata e continuativa che ne fosse privo, nella riqualificazione in rapporto di lavoro a tempo indeterminato, sino dalla sua costituzione.

A distanza di oltre dieci anni dall’entrata in vigore della Legge Biagi, duole, tuttavia, riscontrare che questa scelta legislativa non ha portato le certezze e la serenità che ci si attendeva sul piano giuridico, poiché ha, di fatto, dirottato il dibattito dall’analisi delle situazioni di abuso delle collaborazioni coordinate e continuative (co.co.co.), al tema – ahi noi, molto più formalistico – del progetto, con i suoi connotati. Tale tendenza si è perfino acuita in seguito agli interventi normativi compiuti con la Legge 92/2012 prima e, seppur limitatamente a una con- giunzione, con il D.L. 76/2003, che hanno modificato il testo del D.Lgs. 276/2003 comprimendo ulteriormente le possibilità di instaurare le collaborazioni coordinate e continuative.

L’emanazione della normativa sul contratto a progetto ha dato vita a lunghi anni di inutile esegesi. Si ricordano le diatribe sulla corretta definizione del progetto o del pro- gramma o dalla fase del progetto e i fiumi di inchiostro versati sull’interpretazione di concetti inutili, quali la distinzione tra pro- getto e oggetto sociale. Tali elucubrazioni hanno, di fatto, assorbito le energie di professori universitari e professionisti. Con la paradossale conseguenza che, dei contratti a progetto elaborati con il focus sul tema del progetto stesso, solo una minima parte era- no e sono genuini. Senza trascurare il fatto che, il più delle volte, lo sono non perché il progetto rispetti la norma, ma perché i rap- porti di lavoro, in sé e per sé, rispettano i canoni dell’autonomia.

Rincuora constatare che la Suprema Corte, nelle cause sulla natura del rapporto di lavoro, non ha preso in particolare considerazione la disciplina del contatto a progetto e ha preferito, viceversa, riferirsi alla specifica volontà delle parti, dimostrata nelle concrete modalità di svolgimento del rapporto, consapevole del fatto che l’unica vera criticità della parasubordinazione era – ed è – rappresentata dal suo utilizzo troppo diffuso e spesso distorto nella prassi.

Ancor prima dell’entrata in vigore della Legge Biagi, i giuslavoristi si sono impegnati, nel corso degli anni, a individuare i caratteri sostanziali di distinzione tra il rapporto di lavoro autonomo e quello subordinato e, per sintetizzare il vasto panorama di analisi in merito, il principale indicatore è stato delineato nell’assoggettamento o meno al potere direttivo, organizzativo e disciplinare del datore di lavoro. A sostegno di ciò, la giurisprudenza ha, con il tempo, enucleato una serie di ulteriori indici empirici, sempre discendenti dal suddetto indicatore principale, quali l’orario di lavoro, la continuità della prestazione lavorativa, l’inserimento del prestatore nell’organizzazione dell’impresa, l’oggetto della prestazione, l’applicazione delle energie lavorative secondo le direttive e il controllo del datore di lavoro, l’assenza di rischio, le modalità e la predeterminazione della retribuzione, l’organizzazione del lavoro. Da notarsi che questi elementi non sono significativi se valutati singolarmente, ma solo se vengono considerati assieme, nella globalità della situazione. La giurisprudenza, inoltre, non ha mai ricercato questi caratteri nel contratto, che potrebbe anche essere orale, ma nel concreto svolgimento del rap- porto lavorativo tra le parti. La Suprema Corte ha, d’altra parte, ripetuto in più occasioni l’assioma interpretativo secondo cui ogni attività umana, economicamente rilevante, può essere oggetto sia di un rapporto di lavoro subordinato, sia di un rapporto di lavoro autonomo, i quali si distinguono per la presenza, solo nel primo, del vincolo di soggezione del lavoratore al potere direttivo, organizzativo e disciplinare del datore di lavoro, vincolo la cui esistenza va, peraltro, apprezzata con riguardo alla specificità dell’incarico conferito al lavoratore e al modo in cui viene attuato (vedasi ex plurimis Cass. 15 giugno 1999, n. 5960).

L’avvento della Legge Biagi e l’introduzione del concetto di progetto non hanno, di fatto, determinato un cambiamento nella giurisprudenza che, solo con voci minoritarie, si è, in qualche occasione, espressa in modo divergente rispetto al filone interpretativo appena illustrato. Pochi giudici hanno, infatti, intrapreso un pericoloso ragionamento interpretativo, in base al quale l’assenza del progetto determina di per sé la riqualificazione del rapporto di lavoro da autonomo a subordinato, non considerando per nulla le concrete modalità di svolgimento del rapporto.

L’assenza del progetto – o addirittura la sua carenza di definizione – farebbero, in pratica, operare una presunzione assoluta di subordinazione del rapporto di lavoro, prescindendo completamente dalla volontà delle parti. Questo rischio interpretativo si ritiene, venga fugato dalla novità legislativa in corso di emanazione e che consiste nell’abrogazione del contratto a progetto. Ciò naturalmente a meno che la nuova disciplina non apra altri fantasiosi scenari interpretativi.

Prima di analizzare lo schema del decreto legislativo, è opportuno compiere una breve riflessione su alcuni dati che riguardano attualmente il fenomeno della parasubordinazione.

Le condizioni economiche e occupazionali odierne, a tutti note, sono nettamente diverse rispetto a quelle del 2003. Il numero dei contratti a progetto è sicuramente diminuito, per effetto sia dell’introduzione della Legge Biagi, sia della pesante crisi. Al calo dei con- tratti di lavoro parasubordinato, si è accompagnato, tuttavia, un incremento sensibile dei rapporti di lavoro autonomo a partita IVA, ma non di quelli di lavoro subordinato. Il che fa ragionevolmente supporre che siano stati inquadrati come lavoratori a partita IVA anche molti collaboratori che, di fatto, operavano e operano in regime di subordinazione. I dati più recenti risalgono al 2013: la parasubordinazione in Italia contava circa 1.000.000 lavoratori, dei quali 500.000 erano inquadrati con contratto a progetto. Il reddito medio annuo calcolato nel 2013 era di poco superiore a 10.000,00 € lordi e il 30 % dei collaboratori era di età inferiore a 30 anni con un reddito medio annuo pari a 5.000,00 €. Ancora una volta, il Governo ha manifestato la volontà di ricondurre alla regolarità una serie di rapporti di lavoro, indirizzandoli verso la subordinazione.

Il Ministro del Lavoro, nella conferenza stampa tenuta all’indomani dell’emanazione della legge delega n. 183 del 10 dicembre 2014, ha sottolineato il rischio legato a un’immediata abolizione dei contratti a pro- getto, che potrebbe addirittura tradursi nel trasferimento all’estero di imprese operanti in settori ormai privi di redditività e che “galleggiano” abusando di forme contrattuali non proprio ortodosse, tra le quali si annovera il contratto a progetto, impiegato a copertura di rapporti di lavoro subordinato. Il capo del dicastero ha messo sì in luce la precarietà dei lavoratori a progetto, conclamata da tempo, ma ha anche ammesso implicitamente la precarietà insanabile di molte aziende, che fanno uso dei contratti a pro- getto come unica possibilità semi-lecita di impiego di personale.

Il Governo, con questo decreto legislativo, si pone il nobile obiettivo di lanciare un ulteriore colpo di scure sul precariato, incurante, però, delle gravi conseguenze che potrebbe provocare sul mercato del lavoro. Se a seguito dell’introduzione della legge Biagi si è assistito a un cospicuo incremento delle partite IVA, non si nasconde, infatti, che il nuovo decreto legislativo potrebbe agevolare l’economia del sommerso in settori economici ormai esausti, nei quali l’assunzione di personale dipendente è tecnicamente impossibile. Tuttavia, s’intende in questa sede dare una lettura attenta ed elementare alle nuove norme per valutare con spirito critico le reali conseguenze dell’intervento del Legislatore.

Le intenzioni del Governo si riassumono nella rubrica del Titolo II dello schema legislativo che tratta la questione: “Riconduzione al lavoro subordinato”.

L’articolo 49 sancisce il superamento del contratto a progetto con la sua abrogazione, mentre l’art. 47 ridefinisce la disciplina delle collaborazioni stabilendo che “A far data dal 01/01/2016 si applica la disciplina del rapporto di lavoro subordinato anche ai rapporti di collabo- razione che si concretino in prestazioni di lavoro esclusivamente personali, continuative, di contenuto ripetitivo e le cui modalità di esecuzione siano organizzate dal committente anche con riferimento ai tempi e al luogo di lavoro.”

Il legislatore abbandona, pertanto, la strada del progetto e questa scelta può essere vista positivamente: si esce, infatti, dall’esperienza negativa della tipizzazione di un contratto, lasciando nuovamente il campo aperto alla libera disciplina del lavoro autonomo, nel solo rispetto delle condizioni sostanziali sopra enunciate che distinguono questa tipologia da quella subordinata.

Per quanto concerne i nuovi criteri che sono stati introdotti, ci si auspica che la giurisprudenza non ponga grande attenzione agli stessi, dal momento che, si ritiene, essi hanno davvero uno scarso rilievo ai fini della qualificazione giuridica del rapporto.

Ci si pone, ad esempio, il quesito di cosa significhi “prestazioni di lavoro esclusivamente personali, continuative, di contenuto ripetitivo”. Un qualsiasi lavoratore autonomo rende presta- zioni di lavoro personali (esclusivamente personali solo in assenza di collaboratori), in via continuativa e dal contenuto ripetitivo dal momento che le sue prestazioni consistono in ciò che egli sa fare e che quindi ripete, in via continuativa. Ci si chiede, in seconda battuta, che significato avrà mai l’avverbio esclusivamente. La complessità del sistema in cui operiamo e la parcellizzazione delle specializzazioni ci rende costantemente dipendenti da altre professionalità oppure ciò comporta un approccio alle tematiche in equipe. Ma, al di là di queste valutazioni, l’art. 2222 del Codice civile chiarisce che la prestazione del lavoratore autonomo viene resa “con lavoro prevalentemente proprio”. Si genera pertanto, una palese contraddizione tra le due disposizioni normative. Non è nemmeno chiara la successiva condizione che farebbe scattare la subordinazione: l’organizzazione della esecuzione delle prestazioni in capo al committente. Giurisprudenza e dottrina sono una- nimi nell’attribuire valore assoluto, ai fini della qualificazione del rapporto di lavoro subordinato, alla condizione di assoggettamento del lavoratore al potere direttivo, organizzativo e disciplinare del datore di lavoro. E’ l’assoggettamento al potere organizzativo che è indice – tra l’altro non assoluto – di subordinazione e non certo la semplice circostanza che il committente organizzi l’esecuzione delle prestazioni. Sarà, in pratica, l’intensità con la quale il committente esplica la sua attività organizzativa a determinare o meno il vincolo di subordinazione. Se la giurisprudenza proseguirà sul consolidato filone interpretativo sopra de- scritto, la riforma potrà avere il merito di sgravare il sistema, dall’ingombrante contratto a progetto e le limitazioni incarnate dalle condizioni appena analizzate saranno semplicemente ricondotte nell’alveo degli indici, parziali, per la qualificazione del rapporto di lavoro.

L’excursus sulla disciplina della parasubordinazione ex art. 61 del D.Lgs. 276/2003 e del nuovo articolo 47 ci induce, ampliando la prospettiva dell’analisi, a chiederci come queste norme si pongano rispetto alle definizioni di lavoro autonomo e professionale sancite dal Codice civile, al libro V, titolo III, con particolare riferimento al contratto d’opera. Leggendo l’art. 2222 del Codice civile, che recita “Quando una persona si obbliga a compiere verso un corrispettivo un’opera o un servizio, con lavoro prevalentemente proprio e senza vincolo di subordinazione nei confronti del committente, si applicano le norme di questo capo, salvo che il rapporto abbia una disciplina particolare nel libro IV”, emerge come il contratto a progetto indubbiamente appartenga alla famiglia del contratto d’opera e come ne rappresenti un’esplicazione, ma non certo l’unica possi- bile. Ed è proprio la tesi che sostiene la presente trattazione quella che afferma la legittimità di un rapporto parasubordinato costituito tramite un contratto d’opera privo di progetto. Questa affermazione rimane valida anche in relazione alla nuova disposi- zione: i nuovi termini introdotti dall’art. 47 non possono sovrapporsi, infatti, all’articolo 2222 del Codice civile.

Si potrebbe invero pensare, in alternativa, che, in presenza di un rapporto di lavoro autonomo genuino ma privo di progetto, l’inquadramento corretto sarebbe a partita IVA. Sorgerebbe, tuttavia, immediatamente un interrogativo: la scelta (o l’obbligo) di aprire la partita IVA è determinata dalla tipologia contrattuale adottata? O meglio: mentre in presenza di un contratto a progetto è pacifica l’esenzione dal regime IVA, il lavoratore autonomo che svolga un’attività non rientrante nel campo di applicazione del contratto a progetto può davvero essere costretto – sempre e comunque – all’apertura della partita IVA?

Sembra evidente che a far sorgere l’obbligo di aprire la partita IVA sono le modalità e le condizioni in cui un’attività viene resa, a prescindere dall’inquadramento contrattuale prescelto dalle parti.

Per comprendere bene come le disposizioni di natura fiscale si coordinino con la disciplina dei contratti ex art. 2222 Codice civile ed ex art. 61 D.Lgs. 276/2003, ci viene certamente in aiuto una breve ricerca storica.

La parasubordinazione esplodeva negli anni ’80 ed era frutto della funambolica creatività italiana, applicata all’interpretazione del Testo Unico delle Imposte sui Redditi (TUIR). A rigor del vero, potremmo forse tributare alla categoria dei commercialisti la genesi di questa figura contrattuale, che nacque non da una norma civilistica, bensì da una definizione di diritto tributario.

Per completezza, certamente si riconosce che anche l’art. 409 del c.p.c. tratta di collaborazione coordinata e continuativa, ma, nel presente ragionamento, si preferisce concentrarsi sulle disposizioni fiscali.

Il secondo comma dell’art. 49 del TUIR, nella sua formulazione originaria (legge n. 917/1986), recitava alla lettera a) che rientrano tra i redditi da lavoro autonomo “i redditi derivanti dagli uffici di amministratore, sindaco o revisore di società […] e da altri rapporti di collaborazione coordinata e continuativa. Si considerano tali i rapporti aventi per oggetto la prestazione di attività, non rientranti nell’oggetto dell’arte o professione esercitata dal contribuente ai sensi del comma 1, che, pur avendo contenuto intrinsecamente artistico o professionale, sono svolte senza vincolo di subordinazione a favore di un determinato soggetto nel quadro di un rapporto unitario e continuativo, senza impiego di mezzi organizzati e con retribuzione periodica prestabilita.

Grazie a questa previsione di carattere resi- duale, erano stati assoggettati alle regole del lavoro autonomo anche i rapporti di collaborazione coordinata e continuativa, purché svolti senza vincolo di subordinazione, a favore di un determinato soggetto (non di una pluralità di soggetti), senza l’impiego di mezzi organizzati e – si aggiunge – con retribuzione periodica prestabilita.

Gli operatori si agganciarono proprio a questa disposizione fiscale per cucire un abito su misura per alcune figure, che svolgevano in azienda attività in forma più o meno autonoma. Il motivo di tale costruzione era semplice: prima del 31/12/1995, su tali redditi di lavoro autonomo non si applicava alcune forma di contribuzione previdenziale.

Et voilà, nacquero le collaborazioni coordinate e continuative (co.co.co.), che consentivano il risparmio contributivo totale.

Per proseguire nel nostro ragionamento, è fondamentale, a questo punto, richiamare un’ulteriore norma, che si collega alla disposizione del TUIR che delinea la fattispecie delle co.co.co. e che è rimasta immutata nel tempo. Si tratta dell’art. 5 del DPR 633/1972, che esclude dall’applicazione del regime IVA le prestazioni di servizi inerenti ai rapporti di co.co.co. Questa disposizione ha mantenuto la sua vigenza, anche quando l’articolo del TUIR è stato negli anni rimaneggiato e, in particolare, ha visto, da un lato, uno spostamento dei redditi derivanti dalle co.co.co. dagli assimilati a quelli da lavoro autonomo alla categoria degli assimilati a quelli da lavoro dipendente, nonché, dall’altro, lo scollegamento delle co.co.co. stesse dall’esercizio di arti e professioni, con il conseguente ampliamento dell’ambito di operatività della figura contrattuale. Si sottolinea, in buona sostanza, che il trattamento fiscale dei redditi prodotti dalle co.co.co., che esclude l’applicazione del regime IVA, è rimasto invariato, sia quando il legislatore “classificò” le stesse tra i redditi da lavoro autonomo, sia quando le comprese nella categoria dei redditi assimilati al lavoro di- pendente, ribadendo, in ogni caso il carattere distintivo delle co.co.co., che è rappresentato dal conferimento delle prestazioni senza vincoli di subordinazione.

Oggi, le co.co.co. sono definite all’art. 50, c. 1, lett. c-bis del TUIR come “altri rapporti di collaborazione aventi per oggetto la prestazione di attività svolte senza vincolo di subordinazione a favore di un determinato soggetto nel quadro di un rapporto unitario e continuativo senza impiego di mezzi organizzati e con retribuzione periodica” e balza all’occhio come, in tale definizione, possano essere fatte rientrare le prestazioni rese ai sensi del contratto d’opera civilistico, ex art. 2222 Codice civile. Sembrerebbe, a tutti gli effetti, che il Legislatore giuslavorista, nella stesura dell’art. 61 del D.Lgs. 276/2003, abbia completamente trascurato la vigente normativa fiscale, limitando l’utilizzo della parasubordinazione al solo contratto a progetto e alle altre ipotesi del terzo comma. Con la conseguenza che l’assenza del progetto avrebbe portato alla riqualificazione del rapporto in lavoro subordinato ovvero avrebbe costretto il lavoratore ad aprire la partita IVA.

Non si dimentichi, peraltro, che il D.Lgs. 276/2003, così come integrato dal comma 26 dell’articolo 1 della legge n. 92/2012, prevedeva all’art. 69 bis una strana presunzione: un lavoratore che rendeva una presta- zione in regime IVA perdeva l’applicazione del regime stesso ed il rapporto “si trasformava” in un co.co.co. al verificarsi di alme- no due dei seguenti presupposti: a) la collaborazione durasse più di otto mesi nell’anno solare; b) il corrispettivo costituisse più dell’80% dei compensi percepiti dal soggetto nell’arco dell’anno solare; c) il lavoratore avesse una postazione fissa nella sede del committente. Anche con tale disposizione, il Legislatore pareva compiere l’errore di considerare la gestione di un’attività con partita IVA o, viceversa, sotto forma di una collaborazione coordinata e continuativa come una diversa fattispecie giuslavoristica, mentre si tratta di una semplice scelta tra due inquadramenti fiscali, ciascuno legittimo a seconda delle modalità di esecuzione della prestazione ed entrambi afferenti al medesimo genus contrattuale dell’art. 2222 Codice civile. In conclusione, il merito dell’art. 47 dello schema di decreto legislativo va proprio individuato nella volontà di rimettere ordine alla materia.

L’art. 47 elimina l’intera disciplina del con- tratto a progetto e anche la presunzione appena commentata, riportando corretta- mente la questione della riqualificazione dei rapporti sulla contrapposizione dei principi della locatio operis e locatio operarum.

Si premia, così, l’analisi del reale svolgersi dei rapporti lavorativi, nonché la coesione con la normativa fiscale. L’annuncio fatto da tanta stampa dell’eliminazione dei contratti a progetto – e la conseguente preoccupazione serpeggiante tra gli operatori – è ridimensionato, infatti, se supportate dalla volontà delle parti e svolte con modalità realmente autonome, le collaborazioni coordinate e continuative sopravvivranno con vigore all’eliminazione dell’odiosa fattispecie del contratto di lavoro a progetto Ciò è stato messo in preventivo anche dal Governo che, a seguito dei rilievi avanzati dalla Ragioneria generale dello Stato sulla copertura derivante dalla trasformazione delle collabo- razioni a progetto in contratti a tutele crescenti a partire dal 1/1/2016 a causa dell’abbattimento triennale dei contributi, prevede che dei 500 mila contratti in essere nel 2015 solo 200 mila saranno effettiva- mente stabilizzati, ipotizzando la permanenza delle collaborazioni coordinate e continuative genuinamente autonome. Il nuovo sistema consentirà di “superare” l’equivoco che consisteva nel fatto che molti datori di lavoro si illudevano di fornire legittimità a collaborazioni coordinate e continuative “non genuine”, attraverso un progetto formalmente ineccepibile, salvo poi essere smentiti dalla giurisprudenza, che valuta in concreto lo svolgimento del rapporto.

                       

Nota: l’articolo è stato elaborato prima della pubblicazione del decreto legislativo 15 giugno 2015, n. 81 “Disciplina organica dei contratti di lavoro e revisione della normativa in tema di mansioni, a norma dell’articolo 1, comma 7, della legge 10 dicembre 2014, n. 183.

 

* ODCEC di Udine ** ODCEC di Salerno

 

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