Le dimissioni del lavoratore (e non solo)

di Rodolfo Rosso*

Come noto, i commi 16/23 dell’art. 4 della legge 92/2012 (“Fornero”), nell’ambito del “Ulteriori disposizioni in materia di mercato del lavoro” introducono alcune norme, che la rubrica indica quale “Tutela della maternità e paternità e contrasto del fenomeno delle dimissioni in bianco”.

In realtà, sia per la normativa originaria che per alcune modifiche successive, il campo di applicazione oggettivo risulta ben più ampio, come sta dimostrando anche la prassi.

Con effetto dal 18 luglio 2012, da un lato è stata rafforzata la tutela già vigente nei casi di maternità e paternità (comma 16) e, dall’altro lato, è stata introdotta una disciplina formale, che deve seguire le dimissioni spontanee rassegnate dal lavoratore (commi 17 e segg.).

Inoltre, la medesima disciplina trova applicazione alle ipotesi di “risoluzione consensuale” e, dallo scorso 23 agosto, “in quanto compatibili” anche ai soggetti “impegnati” con contratti di collaborazione coordinata e continuativa, anche a progetto e con contratti di associazione in partecipazione di cui all’art. 2549 2° comma c.c. (comma 23 bis inserito dall’ art. 7, c. 5, lett. d), n. 1), D.L. 76/2013, convertito dalla legge 99/2013 “Giovannini”).

Pertanto l’intento dichiarato, non solo in rubrica, ma anche nella relazione al provvedimento, del contrasto alle dimissioni (“in bianco”) fatte sottoscrivere al momento dell’assunzione o successivamente e poi utilizzate dal datore di lavoro ha assunto, nelle disposizioni, operatività ben più ampia. Si ricorda che l’intento di contrastare abusi in tema di cessazione del rapporto per dimissioni era già stato oggetto di un intervento ad opera dell’unico articolo della legge 188/2007, che aveva stabilito una procedura specifica, su appositi moduli anche informatici e anche tramite organizzazioni sindacali e patronati, per le dimissioni “volontarie” dai contratti di lavoro, non solo dei dipendenti, ma anche i contratti di collaborazione, i contratti di collaborazione di natura occasionale, i contratti di associazione in partecipazione con prestazioni lavorative, e i contratti di lavoro instaurati dalle cooperative con i propri soci (c.d. modulo MDV: v. D.M. 21 gennaio 2008 e D.M. 31 gennaio 2008 per le procedure attuative).

Il sistema, rivelatosi di difficile applicazione, dopo poco tempo è stato abrogato dall’art. 39 c 10 del D.L. 112/2008 convertito dalla legge 133/2008.

La disciplina ora in vigore può essere invece così sintetizzata:

Tutela della maternità e paternità si dispone la riscrittura del comma 4 dell’art. 55 D.lgs. 151/2001 (T.U. delle disposizioni legislative in materia di sostegno e tutela della maternità e della paternità).

L’obbligo di convalida della richiesta di dimissioni presentate dalla lavoratrice, durante il periodo di gravidanza, e dalla lavoratrice o dal lavoratore, in precedenza valevole fino a un anno di età del bambino, viene esteso ai primi tre anni di età o ai primi tre anni di accoglienza in caso di affidamento o adozione, nazionale o internazionale.

La disposizione si applica ora anche in caso di risoluzione consensuale del rapporto e la convalida delle dimissioni è espressamente qualificata come condizione sospensiva della risoluzione del rapporto di lavoro.

La convalida è effettuata dal Servizio Ispettivo del Ministero del lavoro e delle politiche sociali competente per territorio.

Altre ipotesi

L’efficacia delle dimissioni della lavoratrice o del lavoratore e della risoluzione consensuale del rapporto è sospensivamente condizionata alla convalida effettuata presso la Direzione territoriale del lavoro o il Centro per l’impiego territorialmente competenti, ovvero presso le sedi individuate dai contratti collettivi nazionali stipulati dalle organizzazioni sindacali comparativamente più rappresentative a livello nazionale

La convalida è effettuata in via alternativa con le seguenti modalità:

  1. presso la Direzione Territoriale del Lavoro (DTL) o il Centro per L’Impiego (CPI) territorialmente competenti
  2. presso le sedi individuate dai contratti collettivi nazionali stipulati dalle organizzazioni sindacali comparativamente più rappresentative a livello nazionale (ad esempio in sede sindacale).
  3. tramite la sottoscrizione di apposita dichiarazione della lavoratrice o del lavoratore apposta in calce alla ricevuta di trasmissione della comunicazione di cessazione del rapporto di lavoro (c.d. comunicazione GECO);
  4. ulteriori modalità semplificate per accertare la veridicità della data e la autenticità della manifestazione di volontà della lavoratrice o del lavoratore individuate con apposito decreto del Ministro del lavoro (non ancora emanato).

Se la convalida non avviene contestualmente alle dimissioni o alla risoluzione, il datore di lavoro deve invitare il dipendente a presentarsi presso la DTL o il CPI ovvero a sottoscrivere apposita dichiarazione in calce alla comunicazione di cessazione del rapporto di lavoro al fine di convalidare l’atto risolutivo.

La comunicazione contenente l’invito, cui deve essere allegata copia della ricevuta di trasmissione della cessazione, è validamente effettuata quando:

a) è recapitata al domicilio della lavoratrice o del lavoratore indicato nel contratto di lavoro;

b) è recapitata ad altro domicilio formalmente comunicato dalla lavoratrice o dal lavoratore al datore di lavoro;

c) è consegnata alla lavoratrice o al lavoratore che ne sottoscrive copia per ricevuta.

In mancanza della convalida o della sottoscrizione e se il datore di lavoro non provveda a trasmettere al dipendente la comunicazione con  l’invito entro il termine di 30 giorni dalla data delle dimissioni, le dimissioni stesse si considerano definitivamente prive di effetto.

Invece nel caso in cui il lavoratore, che abbia ricevuto la comunicazione, non proceda alla convalida presso la DTL o il CPI o alla sottoscrizione della comunicazione di cessazione, il rapporto di lavoro si intende risolto, per il verificarsi della condizione sospensiva, qualora il dipendente:

a)non aderisca, entro 7 giorni dalla ricezione, all’invito a presentarsi presso la DTL o il CPI;

b)non aderisca, entro 7 giorni dalla ricezione, all’invito ad apporre la predetta sottoscrizione, trasmesso dal datore di lavoro, tramite comunicazione scritta;

c)non effettui la revoca delle dimissioni o della risoluzione, sempre entro 7 giorni.

La procedura sopra descritta, come anticipato, trova applicazione, se compatibile, anche ai collaboratori con contratti di collaborazione coordinata e continuativa, anche a progetto, e con contratti di associazione in partecipazione di cui all’art. 2549 2° comma c.c., cioè quando l’apporto dell’associato consista in un prestazione di lavoro.

Pertanto il mancato rispetto della procedura, non sempre agevole da seguire, può comportare la grave conseguenza, già verificata nella pratica, di un rapporto di lavoro, risolto per dimissioni da parte del lavoratore, che riprende efficacia in quanto non vengono rispettate le modalità di legge.

Ma non solo: talvolta infatti il collaboratore dimissionario o con rapporto consensualmente risolto può anche ripensarci e revocare, legittimamente, gli atti risolutori. Si noti, non solo le dimissioni (atto unilaterale), ma anche la risoluzione consensuale (atto tipicamente bilaterale) verrebbero quindi privati di efficacia dalla scelta del lavoratore.

Ovvio a questo punto che, al fine di cristallizzare l’effetto risolutivo, sia preferibile, ove possibile, privilegiare la modalità di convalida tramite sottoscrizione del modello GECO inviato, ma la realtà spesso offre situazioni diverse (si pensi ad un dipendente che rassegna le dimissioni e la sci immediatamente il posto di lavoro, per non parlare dei casi di dimissioni “presunte”), quindi occorre avere sempre ben presenti le modalità descritte al fine di dare effettività alla risoluzione.

Va anche considerato che, mentre tutti gli atti della procedura presuppongono la forma scritta, il comma 21 del citato art. 4, con rifermento alla revoca, stabilisce che “può essere comunicata in forma scritta”, con ciò ammettendo anche la revoca verbale o per atti concludenti (ad esempio ripresa del lavoro).

Il contratto di lavoro, se interrotto per effetto di dimissioni o risoluzione consensuale, torna ad avere efficacia dal giorno successivo alla comunicazione della revoca.

Qualora la prestazione di lavoro non sia stata svolta nel periodo intercorso tra il recesso e la revoca, il lavoratore non matura alcun diritto alla retribuzione e alla revoca consegue la restituzione di tutto quanto eventualmente percepito in forza delle pattuizioni connesse al recesso (TFR, incentivi all’esodo, ad esempio).

Dalla lettura della norma si ricava che il periodo intercorso tra le dimissioni e la revoca possa pertanto anche essere lavorato. Si ricorda, per completezza, che sono stati stipulati diversi accordi al fine di individuare sedi alternative alla DTL per la convalida delle dimissione o della risoluzione (ad esempio Accordo OO.SS./Confindustria 3 agosto 2012 o OO:SS./Confcommercio del 21 settembre 2012).

Inoltre, proprio per rafforzare l’intento delle disposizioni, è previsto che qualora il datore di lavoro, per simulare le dimissioni o la risoluzione consensuale abusi di un foglio firmato in bianco, si applichi una sanzione amministrativa da 5.000 a 30.000 euro (di competenza della DTL), ferma l’eventuale applicazione della sanzione penale ove siano riscontrabili estremi di reato.

Considerato il taglio del presente intervento e senza alcuna pretesa di esaustività di seguito si segnalano alcuni aspetti della normativa in questione, che presentano criticità o anche solo da valutare per una corretta esecuzione della procedura descritta.

Accordi sindacali

La convalida non è richiesta in tutte le ipotesi in cui la cessazione del rapporto di lavoro rientri nell’ambito di procedure di riduzione del personale svolte in una sede qualificata istituzionale o sindacale (es. ex artt. 410, 411 e 420 c.p.c.), in quanto tali sedi offrono le stesse garanzie di verifica della genuinità del consenso del lavoratore cui è preordinata la normativa (in questo senso. circ. Min. Lav 18 luglio 2012 n. 18).

Peraltro molti accordi per l’individuazione di sedi alternative fanno espresso riferimento proprio a tali procedure.

Tipologie di rapporti

La normativa concerne tutti i rapporti di tipo privato, pertanto riguarda anche i dipendenti/collaboratori dei professionisti e anche al rapporto di lavoro domestico.

Sicuramente sono compresi i rapporti di lavoro instaurati con soci lavoratori di cooperative (legge 142/2001).

Per effetto delle modifiche del 2013 trova applicazione anche alle collaborazioni coordinate e continuative di cui all’art. 61 comma 1 D.lgs 276/2003, anche a progetto, nonché gli associati in partecipazione con apporto di lavoro.

A differenza della normativa del 2008 pertanto l’attuale formulazione non riguarda le collaborazioni “occasionali” (comma 2 del citato art. 61) e neppure le c.d. collaborazioni a partita Iva, se genuine.

Restano al di fuori anche le collaborazioni, espressamente escluse dall’art. 61, di cui al comma 3 dello stesso (iscritti ad albi, collaborazioni con associazioni sportive dilettantistiche, amministratori, sindaci e componenti di commissioni, collaboratori che hanno già raggiunto la pensione di vecchiaia).

Come chiarito dal Ministero del Lavoro nella risposta ad interpello n. 35 del 22 novembre 2012 le disposizioni non riguardano invece le pubbliche amministrazioni (art. 1 comma 2 D.lgs. 165/2001; si v. anche Cass. 29 ottobre 2013 n. 24341). Si ritiene siano invece comprese le società partecipate con rapporto di lavoro privatizzato.

Modalità delle comunicazioni

Come si è visto qualora le dimissioni o l’accordo risolutivo non vengano convalidati dal dipendente o collaboratore, occorre instaurare una procedura che presume la comunicazione di alcuni atti.

Ciò comporta alcuni problemi collegati alla natura degli stessi (recettizia o meno) ed in genere alla prova dell’invio, se non della ricezione.

In particolare al fine di dimostrare il rispetto della procedura occorre inviare gli atti, se non sottoscritti dal collaboratore, al domicilio indicato nel contratto di lavoro o ad altro indirizzo formalmente comunicato. In quest’ultima ipotesi potrebbe anche essere ricompresa la comunicazione di un altro domicilio in caso di malattia, ma le ipotesi si possono complicare ad esempio in caso di dipendente tradotto in carcere.

In genere va ricordato che l’art. 1335 c.c. prevede che “La proposta, l’accettazione , la loro revoca e ogni altra dichiarazione diretta a una determinata persona si reputano conosciute nel momento in cui giungono all’indirizzo del destinatario , se questi non prova di essere stato, senza sua colpa, nell’impossibilità di averne notizia” e che il Codice Postale considera ricevuta la missiva non ritirata entro dieci giorni dall’avviso (D.P.R. 156/73 e relativo regolamento di attuazione D.P.R. 655/82).

Dimissioni per fatti concludenti

Con la nuova normativa resta il dubbio che possano mantenere valore le c.d. “dimissioni per fatti concludenti” in alcune ipotesi disciplinate da alcuni CCNL, che associano l’assenza del lavoratore per un certo periodo alle dimissioni, considerate valide anche dalla giurisprudenza (Cass. 2605/87; conf. Cass. 5776/98; v. anche Cass. 4 dicembre 2007 n. 25262, che ha equiparato alle dimissioni il comportamento del dipendente che lascia il posto di lavoro dicendo “me ne vado, ho trovato un altro impiego”).

In tali ipotesi comunque il comportamento potrebbe essere assimilato alla risoluzione consensuale e pertanto è necessario attivare la procedura di convalida.

Dimissioni per giusta causa

La procedura trova applicazione anche alle dimissioni per giusta causa (art. 2119 c.c.), non trovandosi riferimenti normativi per la loro esclusione.

Una conferma si trova anche nella circolare 25 agosto 2008 del Ministero del Lavoro, nel vigore della precedente legge 188/2007 citata.

Dimissioni “estorte”

Restano altresì possibili le contestazioni e l’ordinaria azione di annullamento anche in caso di effettuazione della procedura delle dimissioni se si ritengono rilasciate con i c.d. “visi della volonta’ (dolo, violenza od errore), ad esempio sotto una minaccia del datore di lavoro.

Va ricordato che “al fine dell’annullamento dell’atto di dimissioni rassegnate sotto minaccia di licenziamento per giusta causa, occorre che sia accertata l’inesistenza del diritto del datore di lavoro al licenziamento, attesa l’inesistenza dell’inadempienza addebitata al dipendente o come quando siano state predisposte false prove a suo carico; in tali casi, infatti, con la minaccia di licenziamento il datore di lavoro persegue un effetto non raggiungibile con l’esercizio del diritto di recesso” (così Cass. 15926/04).

*Avvocato del Foro di Biella e Consigliere dell’Ordine degli Avvocati di Biella

 

 

 

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