Millennials e contratto aziendale. Riflessioni sul DEF 2016*
di Michele Faioli **
Se fosse chiesto a un legislatore prudente di dare oggi forma a un sistema di relazioni industriali capace di mettere l’Italia in una sana logica di convergenza normativa con altre economie europee comparabili, quale sarebbe la risposta? Forse quel legislatore farebbe bene a porsi una domanda prima di procedere con le riforme: dovrebbe chiedersi cosa troveranno, negli anni successivi al 2020, di ciò che noi oggi riteniamo sia lavoro, produzione, impresa, i giovani Millennials, e cioè la Net Generation, quella generazione a cui si fa lezione oggi nelle aule di università.
Ho l’impressione che il DEF 2016 sia di fronte alla prima domanda (come riformare la contrattazione). Nel corso del 2016, infatti, “il Governo si concentrerà su una riforma della contrattazione aziendale, con l’obiettivo di rendere esigibili ed efficaci i contratti aziendali e di garantire la pace sindacale in costanza di contratto” (v. DEF 2016, pag. 8). A ciò viene aggiunto, nel medesimo documento, che i “contratti aziendali potranno altresì prevalere su quelli nazionali in materie legate all’organizzazione del lavoro e della produzione”. Il che è in linea con le misure già contenute nel Jobs Act (art. 51, dlgs 81/2015) e nella legge di stabilità 2016 sul welfare aziendale e sulla produttività. Sulla prima domanda ricade un fatto: a differenza di altre economie sviluppate, la struttura industriale italiana non ha beneficiato di relazioni industriali adattabili ai processi di globalizzazione. Quella flessibilità può essere garantita da una maggiore variabilità di una quota del salario e da una significativa capacità di incidere negozialmente a livello aziendale sull’organizzazione del lavoro. Il problema che ci si pone resta il medesimo da anni: il mutamento delle “regole del gioco” è sufficiente? E gli attori sociali muteranno la propria cultura contrattuale? La politica sta facendo la sua parte per riformare le relazioni industriali italiane. Mi pare difficile immaginare che per legge si possa fare di più per favorire e promuovere il collegamento tra contrattazione collettiva, organizzazione del lavoro e produttività. Probabilmente andare oltre questa linea non è neanche auspicabile, data la tradizione di autonomia che le relazioni industriali italiane rivendicano. E questo perché il valore delle riforme nei sistemi di relazioni industriali nasce dall’esperienza concreta, dall’applicazione di norme di legge e di contratto collettivo alle specificità dei contesti in cui l’imprenditore e le rappresentanze sindacali operano. In questa prospettiva, gli studi più accreditati di giuslavoristi che si occupano di diritto comparato e di esperti di relazioni industriali ci insegnano che Francia e Germania, anticipando la crisi del 2008, avevano già aggiornato i propri sistemi di relazioni industriali, rendendo modulabili, adattabili, flessibili i contratti collettivi nazionali e aziendali. In altre parole, in quei sistemi economici, facendo scorta di esperienze di crisi precedenti o trasformazioni istituzionali, si rese elastico ciò che era per definizione anelastico. In Francia il sostegno legislativo è stato meno blando che in Germania. In entrambi i casi, però, decisiva è stata la volontà delle parti sociali di appoggiare alla norma di legge, che promuoveva la riforma, le modifiche interne ai sistemi di contrattazione, che sono state auto-regolamentate dalle medesime parti, più o meno estensivamente. È stato, dunque, il protagonismo delle parti sociali in quei paesi ad aver avuto esiti positivi.
I recenti fatti francesi sulla riforma del lavoro ci fanno capire che le vie alternative all’auto-regolamentazione delle parti sociali, sostenute adeguatamente dal legislatore, creano scompiglio. In Italia le relazioni industriali sono un “bene-esperienza” molto prezioso, che ha una propria grammatica, spesso incagliata in artifici linguistici che coprono persino le intenzioni più vere dei soggetti sindacali che amministrano le regole. CGIL, CISL, UIL si stanno muovendo per tenere un confronto sulla proposta unitaria. Gli imprenditori artigiani e parte della cooperazione e del terziario hanno già dimostrato che è possibile un dialogo su quella proposta. Confindustria ha segnalato che l’incremento di produttività, di cui il Paese ha necessità, è prioritario al di là di ogni rituale sul consenso unanime. Il legislatore italiano ha spazio per agire rapidamente nelle relazioni industriali, mettendo da parte le tecniche alla francese, che sono eccessive, onnicomprensive, dettagliate e determinano conflittualità tra e delle parti sociali nella relazione con il Governo.
Il legislatore italiano, seguendo la linea del DEF 2016, potrebbe invece aggiornare, passo dopo passo, muovendo dalla giurisprudenza costituzionale del 2013, relativa all’art. 19 dello Statuto dei Lavoratori, lo schema di rappresentanza in azienda, dei poteri di negoziazione di tale rappresentanza aziendale, del vincolo alla contrattazione aziendale, anche dei dissenzienti, individui e organizzazioni, e della relazione tra quest’ultima e quella nazionale. Questa è una specie di sinossi valoriale che non incide dall’esterno sui principi costituzionali, forse non forma in sé un discorso giuridico perfetto, ma è estremamente pragmatica, dunque è benefica per tutti in questo momento. Il caso della promozione del welfare aziendale attuato per contrattazione aziendale è, in questa ottica, un caso positivo, una esperienza premiante, una best practice. Ed è per questa ragione che ritengo che, in quella sinossi valoriale (art. 19 riformulato, anche sulla scorta del TU2014, maggioranza che prevale, contratto aziendale vincolante), il decentramento contrattuale debba essere controllato e mai sbilanciato a favore del livello nazionale. Fare il contrario significherebbe riproporre liturgie passate e continuare nella maledizione del secondo livello. E ciò perché le organizzazioni sindacali, pur nel rispetto delle proprie gerarchie istituzionali, non creino fenomeni di stop-and-go del contratto aziendale, con veti e nulla osta, con fenomeni di dissenzienti e plurime minoranze organizzate. In passato, il contratto decentrato è stato già ampiamente caratterizzato da erogazioni non collegate a parametri di produttività e da forti resistenze a contrattare le flessibilità interne organizzative. Le ragioni sono note da anni: a metà degli anni ’90, la Commissione Giugni indicava le ragioni facendo riferimento alle “vischiosità delle prassi precedenti, impreparazione culturale dei soggetti negoziali decentrati, resistenza ad allargare le materie oggetto di contrattazione (ad es. all’organizzazione del lavoro), mancanza di strutture anche organizzative adeguate”. Lo scenario è pressoché il medesimo. È mutato di poco in alcuni settori, in alcune aree, in alcune aziende, sebbene vi siano (stati) tentativi controcorrente.
Alla seconda domanda, quella dei Millennials, si potrebbe rispondere efficacemente con una specie di percorso, individuando cose concrete rispetto alle urgenze delle relazioni industriali italiane e disciplinando, mediante legge, un “frame” preliminare per le aziende medio- grandi (con più di 50 lavoratori): disporre la regola dell’esclusività della rappresentanza in azienda (i.e. si vota a maggioranza ed è giuridicamente irrilevante il dissenso delle minoranze e dell’individuo); fissare le materie o prerogative della rappresentanza aziendale nella contrattazione aziendale che sono connesse alla gestione dei rapporti di lavoro (flessibilità normative – orario di lavoro, mansioni, controlli, inquadramento, etc.); fissare il principio di prevalenza del contratto decentrato su quello nazionale nelle materie indicate sopra; introdurre sistemi per l’attuazione dell’arbitrato (o di commissioni conciliative) nelle relazioni collettive, a livello aziendale e livello nazionale (cosa accade se non si raggiunge accordo? Quale maggioranza prevale? Cosa accade se la clausola di tregua sindacale viene violata? E altri problemi noti: stabilire procedure nella gestione del dissenso della minoranza organizzata o dell’individuo; applicazione di sanzioni collettive e individuali). Per le PMI si potrebbe lasciare alla contrattazione collettiva territoriale e alla relativa bilateralità l’attuazione mediata di questo frame.
*Articolo già pubblicato su Il Foglio del 5 maggio 2016
** Professore di Diritto del Lavoro ll’Università degli Studi di Roma “Tor Vergata”
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