Note a sentenza : La nullità del patto di prova nell’era del Jobs Act
di Vittorio De Luca*
Con la sentenza dell’8 aprile 2017, n. 730 il Tribunale di Milano si è pronunciato sul regime di tutela applicabile al lavoratore in caso di nullità del patto di prova. Nel caso portato alla decisione del Giudice del lavoro, la dipendente, assunta successivamente al 7 marzo 2015, nei confronti della quale trovava applicazione la disciplina del cosiddetto contratto di lavoro a tutele crescenti, introdotta dal D.lgs 4 marzo 2015, n. 23 “Disposizioni in materia di contratto di lavoro a tempo indeterminato a tutele crescenti, in attuazione della legge 10 dicembre 2014, n. 183”, ha richiesto di accertare la nullità del patto di prova con la conseguente applicazione della tutela reale. Com’è noto, il patto di prova, per ormai pacifica giurisprudenza, per essere valido deve contenere l’indicazione specifica delle mansioni che sono oggetto della prova; l’indicazione de quo può anche essere realizzata mediante rinvii al sistema classificatorio della contrattazione collettiva, purché vi siano riferimenti specifici che tengano conto della categoria, qualifica o livello professionale del singolo, contenuti nel contratto di lavoro. Tutto ciò, al fine di poter determinare nel dettaglio quali saranno le mansioni che il neoassunto andrà a svolgere e, di conseguenza, permettere sia al dipendente sia al datore di lavoro chiarezza sulle mansioni che formeranno oggetto della prova. Nel caso che ci occupa, il Tribunale di Milano ha ritenuto nullo il patto di prova poiché, appunto, privo “di specifica indicazione, in forma scritta, delle mansioni che ne costituiscono l’oggetto”. Infatti, nel relativo contratto vi era la mera indicazione del ruolo della lavoratrice, inquadrata quale Analyst Consultant; formulazione che, a parere del giudice adito “è in sé priva di contenuto specifico, soprattutto in assenza di qualsivoglia ulteriore indicazione sull’area di operatività della lavoratrice”. Sin qui nulla di nuovo. Si tratta di una statuizione che si inserisce all’interno di quell’alveo giurisprudenziale oramai cristallizzatosi sul punto. La novità principale attiene, invece, alle conseguenze della dichiarazione di nullità del patto di prova. Infatti, a seguito della Riforma Fornero (legge 92/2012) la giurisprudenza tutta si era espressa individuando nella reintegrazione del lavoratore la soluzione fisiologica avverso le ipotesi di nullità; lo stesso Tribunale di Milano nel 2013 aveva statuito che “in caso di licenziamento per mancato superamento del patto di prova, l’accertata nullità del patto determina l’inesistenza del motivo addotto e conseguentemente il diritto del lavoratore alla reintegrazione nel posto di lavoro ex art. 18 comma 4 st. lav.” (Trib. Mil. 24 maggio 2013).
La pronuncia oggetto del nostro esame non solo si pone in controtendenza rispetto all’orientamento ante Jobs Act, di cui si è detto, ma ribalta la letteratura formatasi sul punto anche in relazione ai contratti a tempo indeterminato a tutele crescenti. In tal senso, il Tribunale di Torino con la sentenza del 6 luglio 2016 aveva statuito che in tali ipotesi il recesso in prova doveva essere sanzionato con la reintegrazione poiché riconducibile alle ipotesi di licenziamento intimato “per giustificato motivo soggettivo o per giusta causa in cui sia direttamente dimostrata in giudizio l’insussistenza del fatto materiale”, riconducendo, dunque, il recesso in prova all’interno delle ipotesi di licenziamento per motivi disciplinari. Il Tribunale di Milano invece ha ritenuto che “il mancato superamento della prova di per sé non integra né presuppone necessariamente una condotta disciplinarmente rilevante” motivo per il quale, coerentemente rispetto a quanto previsto dall’art. 3, comma 1, del decreto legislativo 23/2015, “in presenza di patto di prova nullo, il recesso motivato con riferimento al mancato superamento della prova sia da ritenere” come privo di motivazione, trovando applicazione la tutela prevista per le “ipotesi di licenziamento intimato in assenza di giusta causa o giustificato motivo oggettivo o soggettivo”. Quindi, il rapporto di lavoro dovrà ritenersi estinto alla data del recesso in prova, con l’applicazione della tutela indennitaria di importo pari a due mensilità dell’ultima retribuzione di riferimento per il calcolo del trattamento di fine rapporto (TFR) per ogni anno di servizio, in misura non inferiore a 4 e non superiore a 24 mensilità. La soluzione da ultimo prospettata rappresenta, di certo, il punto d’arrivo di un lungo processo interpretativo che si pone chiaramente in rapporto di prossimità con l’intenzione prima ricercata dal legislatore con il Jobs Act, fornendo alla tutela risarcitoria il protagonismo promosso dal legislatore del 2015.
* Avvocato e Dottore Commercialista, Managing Studio De Luca & Partners
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