Rassegna di giurisprudenza
dell’avv. Bernardina Calafiori*
Cass. Civ. Sez. lav., 22 marzo 2016, n. 5574
Rapporto di lavoro subordinato – Licenziamento – Utilizzazione dei permessi ex lege n. 104/1992 per finalità diverse da quelle di assistenza- Giusta causa di licenziamento – SussisteL’utilizzazione dei permessi ai sensi della legge n. 104 del 1992 per scopi estranei a quelli presentati dal lavoratore costituisce comportamento oggettivamente grave, tale da determinare, nel datore di lavoro, la perdita di fiducia nei successivi adempimenti e idoneo a giustificare il recesso.
Il caso deciso con la sentenza in epigrafe riguardava un lavoratore licenziato per giusta causa, al quale era stata contestata una condotta di abuso nella fruizione dei permessi ex lege n. 104/1992. In particolare il lavoratore era stato visto recarsi presso l’abitazione del parente assistito soltanto per complessive quattro ore e tre minuti, pari al 17,5% del totale di tempo concesso (tre giornate lavorative di permesso).
I giudici di merito, in sede di appello, dichiaravano legittimo il licenziamento, ritenendolo provvedimento proporzionato alla luce dell’evidente intenzionalità della condotta, indicativa di un grave disinteresse per le esigenze aziendali e dei principi di correttezza e buona fede nell’esecuzione del contratto, ritenendo per contro irrilevante il marginale assolvimento dell’obbligo assistenziale.
Avverso tale decisione il lavoratore licenziato ha proposto ricorso in Cassazione.
La Suprema Corte ha respinto tutti i motivi di ricorso ed ha confermato la legittimità del licenziamento intimato.
In particolare la sentenza conferma la sussistenza di una giusta causa di licenziamento a fronte del tempo significativamente limitato dedicato alla finalità assistenziale prevista dalla norma, con evidente utilizzazione dei permessi per scopi estranei a quelli per i quali sono stati concessi, comportamento ritenuto oggettivamente grave, tale da determinare nel datore di lavoro la perdita della fiducia nei successivi adempimenti e idoneo a giustificare il recesso per giusta causa. In particolare il carattere abusivo della condotta posta in essere, e conseguentemente la sua idoneità ad integrare la violazione dei canoni richiamati ed una giusta causa di recesso datoriale, risultavano dagli indici di fatto accertati nella sentenza impugnata, sia relativi alla percentuale esigua del tempo destinato all’attività di assistenza rispetto a quello totale dei permessi, sia relativi alle altre modalità temporali in cui tale attività risultava prestata, caratterizzate da un’evidente irregolarità, sia in termini di fascia oraria, sia in termini di durata esigua della permanenza presso il domicilio del soggetto assistito.
Cass. Civ. Sez. lav., 19 febbraio 2016, n. 3294
Rapporto di lavoro subordinato – Malattia – Visite di controllo INPS – Obbligo di reperibilità al domicilio comunicato – Obbligo di comunicazione agli organi di controllo dell’eventuale allontanamento dal domicilio
L’obbligo di reperibilità alla visita medica di controllo dell’INPS comporta che l’allontanamento dall’abitazione, indicata all’ente previdenziale quale luogo di permanenza durante la malattia, sia giustificato solo quando tempestivamente comunicato agli organi di controllo.
L’obbligo dell’INPS di erogare l’indennità di malattia permane, anche a fronte di un comportamento del lavoratore che si sottragga alla verifica sanitaria, solamente ove ricorrano serie e comprovate ragioni, quale l’indifferibile necessità di recarsi presso un luogo diverso dal proprio domicilio, e considerato l’obbligo di cooperazione in capo all’assicurato per la realizzazione del fine di rilevanza pubblica di impedire abusi di tutela.
Il caso deciso con la sentenza in epigrafe riguardava la controversia tra l’INPS ed un lavoratore dipendente, al quale l’Ente non aveva corrisposto l’indennità di malattia in ragione dall’assenza dal domicilio indicato per le visite di controllo.
Il lavoratore adduceva che la necessità di allontanarsi dal proprio domicilio era stata determinata da esigenze familiari improcrastinabili, legati ad un grave incidente occorso ad un parente.
I giudici di merito, non ritenendo sufficientemente provata né la forza maggiore né comunque l’impossibilità di comunicare agli organi di controllo l’allontanamento dal proprio domicilio, respingevano le domande proposte, confermando la legittimità del diniego dell’INPS di corrispondere l’indennità di malattia.
Avverso tale decisione il lavoratore ha proposto ricorso in Cassazione.
La Suprema Corte ha respinto il ricorso, confermando la decisione dei Giudici di merito e ripercorrendo in maniera sintetica ma esaustiva i principi che regolano la materia.
La Corte di Cassazione afferma che “l’ingiustificata assenza del lavoratore alla visita di controllo – per la quale la normativa vigente prevede la decadenza (in varia misura) del lavoratore medesimo dal diritto al trattamento economico di malattia – non coincide necessariamente con l’assenza del lavoratore dalla propria abitazione, potendo essere integrata da qualsiasi condotta dello stesso lavoratore – pur presente in casa – che sia valsa ad impedire l’esecuzione del controllo sanitario per incuria, negligenza o altro motivo non apprezzabile sul piano giuridico e sociale. La prova dell’osservanza del dovere di diligenza incombe al lavoratore. In particolare, il potere dell’ente previdenziale-debitore di verificare il fatto generatore del debito (prima di pagare) verrebbe vanificato dalla contrapposta facoltà del preteso creditore di sottrarsi alla verifica se non per serie e comprovate ragioni, quale l’indifferibile necessità di recarsi presso altro luogo (usualmente la giurisprudenza ha valutato l’ipotesi di allontanamento dal domicilio per esigenza improcrastinabile di recarsi presso l’ambulatorio del medico curante). L’obbligo di reperibilità alla visita medica di controllo comporta che l’allontanamento dall’abitazione indicata all’ente previdenziale quale luogo di permanenza durante la malattia sia giustificato solo quando tempestivamente comunicato agli organi di controllo. Qualora tale comunicazione sia stata omessa o sia tardiva, non viene automaticamente meno il diritto, ma l’omissione o il ritardo devono a loro volta essere giustificati”.
In sintesi:
- durante il periodo di assenza dal lavoro per malattia il lavoratore ha l’obbligo di rendersi reperibile nelle fasce orarie previste e di cooperare all’accertamento dello stato di malattia;
- nel caso di allontanamento dal domicilio il lavoratore deve comunicarlo agli organi di controllo;
- in caso di assenza dal domicilio comunicato e di irreperibilità alla visita di controllo, non viene automaticamente meno il diritto a percepire l’indennità di malattia, ma è specifico onere della prova gravante sul lavoratore dimostrare un’ipotesi di forza maggiore e una situazione cogente, che lo abbiano costretto ad allontanarsi dal proprio domicilio senza poterne dare previa comunicazione.
Nella specie la Corte ha respinto il ricorso del lavoratore e confermato la legittimità del diniego dell’INPS di corrispondergli l’indennità di malattia, ritenendo congrua la motivazione dei giudici di merito secondo i quali non era stata dimostrata una situazione cogente che avesse imposto al lavoratore di allontanarsi dal proprio domicilio, né in ogni caso era stata dimostrata l’impossibilità oggettiva di dare previa comunicazione dell’allontanamento agli organi di controllo.
Tribunale di Milano, Sez. lav., 1 aprile 2016, n. 1022/2016
Auto aziendale ad uso promiscuo – Costo a carico del lavoratore mediante trattenuta mensile in busta paga – Natura retributiva – Inconfigurabilità
La concessione di un determinato benefit rientra nel concetto di retribuzione imponibile ai fini contributivi qualora lo stesso si riferisca a spese che, se pur indirettamente collegate alla prestazione lavorativa, sono comunque a carico del lavoratore, risolvendosi siffatta concessione in buona sostanza in un adeguamento della retribuzione. Per contro il benefit ha natura riparatoria e costituisce una rintegrazione della diminuzione patrimoniale, allorché si riferisce a spese che il lavoratore dovrebbe sopportare nell’esclusivo interesse del datore di lavoro, tenuto perciò a riparare la lesione subita, ed è normalmente collegato alle modalità della prestazione lavorativa svolta.
Nel caso di concessione dell’auto aziendale ad uso promiscuo, a fronte della trattenuta mensile operata in busta paga, ove risulti da tutte le circostanze del caso concreto che il lavoratore, attraverso tale trattenuta, sosteneva integralmente il pagamento del “benefit” in questione nella sua componente privata e personale, non è configurabile un’utilità economica di natura retributiva.
Il caso deciso con la sentenza in epigrafe riguardava il caso di un lavoratore al quale, dopo diversi anni di fruizione dell’auto aziendale ad uso promiscuo, quindi sia ad uso privato che per fini lavorativi, era stato revocato il beneficio.
Nel corso degli ultimi sei anni era stata operata consensualmente una trattenuta mensile in busta paga, di entità superiore al valore attribuito dalle vigenti tabelle ACI all’uso privato del veicolo impiegato dal lavoratore nel medesimo periodo.
Vedendosi revocare l’uso dell’auto aziendale il lavoratore agiva in giudizio, per vedere affermata la natura retributiva del beneficio e quindi l’illegittimità della revoca dello stesso (in base al principio di irriducibilità della retribuzione), con tutte le conseguenze del caso e chiedendo, tra le altre domande, la condanna del datore di lavoro al pagamento del cosiddetto controvalore dell’uso privato dell’auto, quale fringe benefit.
Il Giudice, applicando i principi di cui alla massima in epigrafe, ha rigettato le domande del lavoratore, affermando che la fruizione della suddetta auto, pur se ad uso promiscuo, non aveva natura retributiva. Veniva infatti ritenuto che, in ragione della trattenuta mensilmente effettuata, il lavoratore aveva sostenuto integralmente, con il proprio stipendio, il pagamento del benefit in questione, con conseguente inconfigurabilità della natura retributiva dello stesso. Nelle motivazioni viene evidenziato che il lavoratore aveva concordato il pagamento, a suo carico, di un importo superiore al valore attribuito dalle vigenti tabelle ACI all’uso privato del veicolo assegnatogli ed in tal modo il lavoratore aveva prestato il proprio consenso al sostentamento, a proprio esclusivo carico, della componente privata o personale del benefit.
Considerato quanto sopra, il fatto che l’azienda sostenesse solo il costo dell’uso aziendale del veicolo, in connessione causale diretta con i costi propri della mansione affidata al dipendente, non vale ovviamente a configurare il riconoscimento di un emolumento retributivo.
In presenza di tali condizioni, e alla luce dei precedenti accordi intercorsi tra le parti, è stata quindi esclusa la natura retributiva del beneficio, con conseguente legittimità della revoca unilaterale dell’utilizzo dell’auto da parte del datore di lavoro, senza alcun obbligo di corrispondere alcun controvalore o risarcimento del danno.
*socio fondatore dello Studio Legale Daverio & Florio
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