Rassegna di Giurisprudenza
a cura di Bernardina Calafiori*
Riqualificazione licenziamento
Cass. civ. sez. lav. 6 marzo 2018, n. 5339
La giusta causa e il giustificato motivo soggettivo di licenziamento costituiscono mere qualificazioni giuridiche di condotte ugualmente idonee a legittimare la cessazione del rapporto di lavoro, incidendo soltanto sulla decorrenza degli effetti e sul diritto o meno al preavviso, tanto che la riqualificazione operata dal giudice non fa venir meno la legittimità del recesso diversamente qualificato dal datore di lavoro.Nelle più ampie pretese economiche collegate dal lavoratore al licenziamento asseritamente privo di giusta causa è ricompresa quella, di minore entità, del preavviso spettante nel caso in cui ricorra un giustificato motivo soggettivo, non essendo sul punto necessaria una specifica domanda giudiziale.
L’inclusione di una condotta tra le ipotesi di licenziamento per giusta causa previste dal CCNL di settore non vincola il giudice, tenuto ad accertare la ricorrenza in concreto di una causa che non consente la prosecuzione del rapporto e la proporzionalità tra sanzione ed infrazione.
Un’Azienda licenziava per giusta causa il direttore di un suo negozio per essersi reso responsabile di diverse irregolarità mirate a far ottenere riduzioni di prezzo e sconti ai clienti.
Il Tribunale, in primo grado aveva riqualificato il recesso come licenziamento per giustificato motivo soggettivo e aveva condannato il datore al pagamento di diciotto mensilità di retribuzione ex co. 5 dell’art. 18 St. Lav.
La Corte d’Appello confermava la riqualificazione ma valutava nel merito legittimo il recesso e conseguentemente condannava il lavoratore a restituire l’indennità risarcitoria ex art. 18, comma 5 liquidata dal primo giudice.
Avverso tale pronuncia proponeva ricorso per cassazione il lavoratore, sostenendo la spettanza della tutela risarcitoria ogni qual volta il giudice accerti che non ricorrano la giusta causa o il giustificato motivo soggettivo così come addotti dal datore e, in subordine, il riconoscimento del diritto all’indennità di mancato preavviso.
Il datore di lavoro proponeva ricorso incidentale, dolendosi che la Corte territoriale avesse violato l’art. 2119 c.c. per nonavertenutocontocheilcomportamento contestato al lavoratore fosse ricompreso tra quelli che il CCNL di settore espressamente sanzionava con licenziamento disciplinare per giusta causa, che non consentono la prosecuzione neanche temporanea del rapporto di lavoro.
Con l’ordinanza in commento la Corte di Cassazione affronta i seguenti temi:
(i) se il diverso titolo del recesso (riqualificato dal giudice) comporti automaticamente l’illegittimità del recesso medesimo;
(ii) se, una volta dichiarata la riqualificazione del recesso non illegittimo, la domanda di pagamento dell’indennità risarcitoria ex co. 5 dell’art. 18 contenga l’implicita domanda di pagamento dell’indennità di mancato preavviso;
(iii) se possa operare il principio di c.d. “proporzionalità” anche nell’ipotesi di condotta espressamente menzionata dal Ccnl.
Al primo quesito la Suprema Corte ha dato risposta negativa, partendo dal dato che le nozioni di “giusta causa” e “giustificato motivo soggettivo” costituiscono mere qualificazioni giuridiche di condotte del lavoratore ugualmente idonee a legittimare il recesso datoriale dal rapporto, con la differenza della spettanza o meno della indennità di mancato preavviso.
Infatti il giudizio sulla legittimità o meno del licenziamento resta indifferente sia alla qualificazione che del recesso abbia inteso dare il datore, sia all’eventuale riqualificazione fatta dal giudice, perché se il fatto contestato è comunque idoneo a condurre alla risoluzione del rapporto, il licenziamento è pur sempre legittimo.
La Suprema Corte ha così confermato un orientamento consolidato, secondo cui:
“È ammissibile … la conversione del licenziamento per giusta causa in licenziamento per giustificato motivo soggettivo, in quanto le dette causali del recesso datoriale costituiscono mere qualificazioni giuridiche di comportamenti ugualmente idonei a legittimare la cessazione del rapporto di lavoro, l’uno con effetto immediato e l’altro con preavviso. Ne consegue che il giudice – senza incorrere in violazione dell’art. 112 c.p.c. – può valutare un licenziamento intimato per giusta causa come licenziamento per giustificato motivo soggettivo qualora, fermo restando il principio dell’immutabilità della contestazione, e persistendo la volontà del datore di lavoro di risolvere il rapporto – attribuisca al fatto addebitato al lavoratore la minore gravità propria di quest’ultimo tipo di licenziamento.” (così Cass. sez. lav., 9 giugno 2014, n. 12884; vedi anche Cass. sez. lav., 10 agosto 2007, n. 17604).
La soluzione della seconda questione è strettamente correlata alla prima. Se il giudice può riqualificare il licenziamento in tronco in licenziamento con preavviso in base ad un giudizio di minore gravità dell’inadempimento del lavoratore, a quest’ultimo spetteranno le indennità connesse alla differente qualificazione del recesso, ancorchè non esplicitamente domandate, in base al principio che – ferma la causa petendi – nella domanda con petitum più ampio è sempre ricompresa quella con petitum ridotto.
Anche su tale tematica la Suprema Corte ha confermato il proprio precedente consolidato orientamento (cfr. Cass. sez. lav., 19 dicembre 2006, n. 27104).
La terza questione riguarda invece la materia dei licenziamenti per inadempimento degli obblighi contrattuali del lavoratore o “disciplinari”, involgendo la tematica della vincolatività delle previsioni del c.d. codice disciplinare contenuto nel Ccnl di settore. Anche sul punto la decisione in commento si pone nel solco della tradizione, ribadendo che le previsioni della contrattazione collettiva di condotte integranti ipotesi di licenziamento per giusta causa o giustificato motivo soggettivo hanno carattere meramente esemplificativo e non privano il giudice del potere-dovere di valutare la reale entità e gravità del comportamento addebitato al dipendente, nonché il rapporto di proporzionalità tra sanzione ed infrazione, anche quando riscontri l’astratta corrispondenza di quel comportamento alla fattispecie tipizzata contrattualmente, occorrendo sempre che la condotta sanzionata sia riconducibile alle nozioni legali di cause legittimanti (cfr. da ultimo Cass. sez. lav., 5 aprile 2016, n. 8826).
Pertanto la Cassazione sembra proseguire nell’orientamento secondo cui il giudice deve sempre procedere ad una autonoma valutazione della gravità del fatto accertato e della proporzionalità del licenziamento, anche quando il recesso sia espressamente previsto come sanzione disciplinare dal Ccnl, poiché questo ha in materia valenza meramente esemplificativa.
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Trasferimento d’azienda
Cass. civ. sez. lav. 24 gennaio 2018, n. 1769
Ai fini della legittimità del trasferimento di una rete di lavoratori, ai sensi dell’art. 2112 c.c., occorre che la loro attività sia stabilmente coordinata ed organizzata in maniera tale da tradursi in beni e servizi ben individuabili e che tale attività sia trasferita nella sua interezza, essendo insufficiente il trasferimento del solo personale la cui attività lavorativa viene poi modificata presso il cessionario, alterandone l’originario know how.
Due lavoratori impugnavano il trasferimento del ramo d’azienda (nel quale essi erano stati ricompresi) denunciando la nullità, l’inefficacia e la illegittimità e richiedendo pertanto la sussistenza del rapporto del lavoro con la società cedente del ramo.
La Corte d’Appello, in riforma della sentenza di primo grado, escludeva la configurazione di una cessione di ramo di azienda ai sensi dell’art. 2112 c.c., escludendo altresì l’applicazione di detta norma che prevede che «In caso di trasferimento d’azienda, il rapporto di lavoro continua con il cessionario ed il lavoratore conserva tutti i diritti che ne derivano» e ripristinava il rapporto di lavoro con la Società cedente.
La società cedente promuoveva avversa tale pronuncia ricorso per cassazione.
La Suprema Corte affronta quindi il tema della legittimità del trasferimento, ai sensi dell’art. 2112 c.c., di un ramo di azienda caratterizzato da un elevato «contenuto umano» in presenza di una lieve modificazione dell’attività dei lavoratori con esso trasferiti.
Per giurisprudenza oramai consolidata ai fini della legittimità del trasferimento del ramo di azienda, così come inteso dall’art. 2112 c.c., l’oggetto della cessione deve essere costituito da un’unità produttiva suscettibile di costituire un compiuto strumento di impresa. Elemento decisivo della cessione è costituito dalla c.d. «autonomia funzionale» del ramo ceduto intesa quale capacità, già riscontrabile al momento dello scorporo dal complesso cedente, di provvedere ad uno scopo produttivo con i propri mezzi funzionali ed organizzativi senza bisogno, quindi, di integrazioni di rilievo da parte del cessionario, quindi deve essere riscontrabile precedentemente all’atto del trasferimento.
La nozione di preesistenza, dunque, continua ad essere un elemento indefettibile del ramo di azienda così come concepito dall’attuale comma 5 dell’art. 2112 c.c. poiché, come ampiamente ribadito in giurisprudenza, si può conservare solo qualcosa che già esista, dovendosi categoricamente escludere la legittimità di espulsioni di frazioni, reparti o uffici non coordinati tra loro, unificati solo dalla volontà imprenditoriale e non dall’inerenza del rapporto ad un’entità economica dotata di autonomia e funzionalità in occasione del trasferimento.
La Suprema Corte, nella pronuncia in commento, ha verificato, per l’appunto, l’inerenza dell’oggetto della cessione ad una preesistente entità economica autonoma e funzionale, potendosi trasferire solo un gruppo di dipendenti dotati di particolari competenze stabilmente coordinati ed organizzati tra loro, così da rendere le loro attività interagenti ed idonee a costituire un know how individuabile in una particolare specializzazione, apprezzabile al pari di un bene o un servizio.
Nella fattispecie in esame, la Corte ha ritenuto decisivo, per l’annullamento del trasferimento, che l’oggetto del trasferimento non fosse l’intera organizzazione lavorativa, bensì solo una parte di rete di alcuni informatori medico- scientifici, la cui attività lavorativa, inoltre, era stata modificata presso la cessionaria successivamente al trasferimento. È evidente che un tale trasferimento non poteva che essere qualificato come nullo, stante la modificazione della preesistente organizzazione del lavoro e l’alterazione conseguenziale dell’originario know how insito in tale organizzazione.
L’ormai diffusa “smaterializzazione” dei processi produttivi ha imposto alla giurisprudenza di vagliare la legittimità, ai sensi dell’art. 2112 c.c., di taluni negozi traslativi aventi ad oggetto essenzialmente il capitale umano. Non è infrequente, infatti, la traslazione di un’attività realizzata solo mediante l’impiego di un insieme di lavoratori all’uopo organizzati senza il supporto di un apparato strumentale.
La giurisprudenza prevalente, nel cui solco si pone la pronuncia in commento, ha avuto modo di affermare che tali negozi possono rappresentare dei validi trasferimenti ai sensi dell’art. 2112 c.c. solo a determinate condizioni.
Il ramo (o l’azienda) da cedere deve costituire un insieme di elementi produttivi organizzati dall’imprenditore per l’esercizio di un’attività che si presentino prima del trasferimento come una entità dotata di autonoma ed unitaria organizzazione, idonea al perseguimento dei fini di impresa e che conservi nel trasferimento la propria identità.
Sulla base surriferita condizione di preesistenza della autonomia e della funzionalità del ramo, nell’eventualità in cui l’attività da trasferire sia dall’alto contenuto di prestazione e attività umane (c.d. labour intensive) e dal significativo «know how», deve essere riscontrabile, all’esito del trasferimento, dalla peculiarità organizzativa idonea a trasformare i singoli lavoratori in un’entità imprenditoriale utile alla produzione di beni e/o servizi.
La Corte di Cassazione ha voluto rimarcare che il requisito indefettibile della fattispecie legale di cui all’art. 2112 c.c. resta, in ogni caso, l’elemento dell’organizzazione, intesa come legame funzionale che rende le attività dei dipendenti appartenenti al gruppo interagenti tra di esse e capaci di tradursi in beni e servizi, diversamente alterandosi l’organizzazione e scalfendo il «know how».
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