Rassegna di Giurisprudenza
a cura dell’avv. Bernardina Calafiori – socio fondatore Studio Legale Daverio & Florio*
Corte d’Appello di Milano, Sez. lav., 20 maggio 2016, n. 579
Selezione del personale – Esclusione di candidata di religione musulmana (per rifiuto di togliere il velo) – Condotta discriminatoria – Danno non patrimoniale– Sussistenza
Deve dichiararsi il carattere discriminatorio del comportamento della società consistente nel non avere ammesso la lavoratrice alla selezione per la prestazione di hostess presso una fiera, a causa della sua decisione di non togliere il velo in quanto di religione musulmana, dovendosi condannare detta società a risarcire il danno non patrimoniale patito dall’interessata, da liquidarsi in via equitativa.
Il caso deciso con il provvedimento in epigrafe riguardava una candidata di religione musulmana che era stata esclusa da una selezione di hostess da assumere per la partecipazione ad una fiera commerciale della durata di tre giorni.
Alla candidata era stato espressamente richiesto se era disponibile a togliere il velo durante lo svolgimento della prestazione lavorativa e, a fronte del suo rifiuto, la medesima era stata esclusa dalla selezione.
La candidata esclusa proponeva ricorso davanti al Giudice del Lavoro affermando la natura discriminatoria e lesiva della personalità della condotta tenuta dalla società di selezione del personale.
Il Giudice di primo grado rigettava il ricorso, affermando che la condotta della società non poteva configurare né una discriminazione diretta (art. 2 D.Lgs. 216/2003), “in assenza di una volontà della società di discriminare la ricorrente in quanto appartenente all’islam”, né una discriminazione indiretta in quanto la scelta operata risultava asseritamente giustificata dalla pretesa esigenza di non presentare al cliente (e cioè al datore di lavoro) “candidate aventi caratteristiche di immagine non compatibili con la richiesta di indossare un copricapo, qualunque fosse” (e qualunque fosse la religione della candidata).
La lavoratrice proponeva appello ed i giudici di secondo grado ribaltavano la decisione del primo giudice, ritenendo sussistente un atto discriminatorio, con conseguente diritto dell’appellante al diritto al risarcimento del in quanto appartenente all’islam, “atteso il carattere oggettivo che connota discriminazione (…); l’indagine giudiziaria è diretta ad accertare la tipologia di atto posto in essere e l’effetto che esso produce, restando del tutto estraneo al sindacato del giudice lo stato psicologico – dolo, colpa, buona fede– dell’autore dell’atto discriminatorio. Una condotta, infatti, è discriminatoria se determina in concreto una disparita di trattamento fondata sul fattore tutelato a prescindere dall’elemento soggettivo dell’agente”.
Premesso quanto sopra, la Corte ha affermato che nella specie la decisone di escludere la candidata sulla base di un abbigliamento che connota l’appartenenza ad una specifica religione costituisce una discriminazione diretta, che peraltro ha menomato la libertà contrattuale della ricorrente ed ingiustamente ristretto la sua possibilità di accedere ad un’occupazione.
Nella motivazione della sentenza, peraltro, la Corte richiama coerentemente l’art. 3 del D.Lgs. n. 261/2003, in base al quale il principio di parità di trattamento (“senza distinzione di religione, di convinzioni personali, di handicap, di età e di orientamento sessuale”) si applica anche con specifico riferimento all’area “dell’accesso all’occupazione e al lavoro, sia autonomo che dipendente, compresi i criteri di selezione e le condizioni di assunzione “.
La Corte ha quindi ritenuto sussistente un pregiudizio di natura non patrimoniale arrecato alla candidata esclusa, in termini di “lesione di un diritto, legalmente tutelato, alla parità di trattamento nell’accesso al lavoro nonostante il credo religioso. La lesione è stata significativa, attesa la violazione di un diritto primario che incide in modo rilevante sull’identità personale e sui modi di esplicazione di tale personalità”.
Cass. Civ. Sez. lav., 11 maggio 2016, n. 9635
Estinzione e risoluzione del rapporto di lavoro – Critica rivolta ai superiori con modalità ingiuriose – Insubordinazione– Giusta causa di licenziamento – Sussistenza – Legittimità
In tema di giusta causa di licenziamento per insubordinazione, la critica rivolta ai superiori con modalità esorbitanti dall’obbligo di correttezza formale dei toni e dei contenuti, oltre a contravvenire alle esigenze di tutela della persona umana di cui all’art. 2 Cost., può essere di per sé suscettibile di arrecare pregiudizio all’organizzazione aziendale, dal momento che l’efficienza di quest’ultima riposa in ultima analisi sull’autorevolezza di cui godono i suoi dirigenti e quadri intermedi e tale autorevolezza non può non risentire un pregiudizio allorché il lavoratore, con toni ingiuriosi, attribuisca loro qualità manifestamente disonorevoli.
Un lavoratore veniva licenziato per giusta causa per avere rivolto espressioni e frasi ingiuriose e diffamatorie ad un proprio diretto superiore gerarchico.
I giudici di merito, sia in primo grado sia in appello, accoglievano il ricorso del lavoratore e condannavano la società datrice di lavoro alla reintegrazione nel posto di lavoro, affermando che nella specie non poteva ritenersi integrata la fattispecie della insubordinazione, non avendo il lavoratore posto in essere un rifiuto di eseguire un ordine o una disposizione di servizio, né potendosi ravvisare un inadempimento della prestazione lavorativa.
Il datore di lavoro ha proposto il ricorso in Cassazione che veniva accolto dalla Suprema Corte.
In particolare i giudici di legittimità hanno censurato la nozione di insubordinazione fatta propria dei giudici di merito, precisando che la stessa non può ritenersi limitata al rifiuto di adempiere alle disposizioni impartite dai superiori, ma si estende anche ad altri comportamenti scorretti idonei ad arrecare pregiudizio all’organizzazione aziendale.
E la critica rivolta ai propri superiori con modalità esorbitanti dall’obbligo di correttezza formale dei toni e dei contenuti può essere idonea ad arrecare pregiudizio all’organizzazione aziendale, considerato che quest’ultima si fonda anche sulla gerarchia e sull’autorevolezza di cui godono dirigenti e superiori gerarchici. Autorevolezza e organizzazione gerarchica che non possono non subire pregiudizio da critiche rivolte ai superiori con modi inappropriati, rivolgendo ingiurie ed attribuendo agli stessi qualità disonorevoli.
La Corte quindi conferma che l’aspra critica rivolta al superiore, alla luce dei contenuti e di tutte le circostanze del caso concreto, può integrare la giusta causa di licenziamento.
Nella motivazione della sentenza viene peraltro precisato che argomenti contrari non possono trarsi dalla circostanza che il Contratto Collettivo applicato nella specie tipizzasse come giusta causa di recesso condotte aggressive non solo verbalmente ma anche fisicamente tali. Viene infatti ribadito che la giusta causa di recesso è una nozione legale ed il Giudice pertanto non può ritenersi al riguardo vincolato alle previsioni del contratto collettivo.
Il Giudice, infatti, nell’applicazione della nozione legale di giusta causa, può e deve discostarsi dalle tipizzazioni dei contratti collettivi ed a fronte di inadempimenti che ritenga gravi e che non consentano la prosecuzione neppure provvisoria del rapporto, con lesione del vincolo fiduciario, deve comunque accertare la legittimità del licenziamento.
E, specularmente, il Giudice può e deve escludere che il comportamento del lavoratore costituisca di fatto una giusta causa, pur essendo qualificato tale dal contratto collettivo.
Cass. Penale, Sez. IV, 31 maggio 2016, n. 22837
Sicurezza sul lavoro – Infortunio – Morte del lavoratore – Responsabilità del datore – Presenza di un preposto regolarmente incaricato – Esclusione della responsabilità datoriale
Gli obblighi di prevenzione, sicurezza e sorveglianza gravanti sul datore di lavoro possono essere trasferiti con riferimento ad un ambito ben definito e non all’intera gestione aziendale, in modo espresso, effettivo e non equivoco in capo ad altro soggetto, ad un soggetto qualificato per professionalità ed esperienza che sia dotato dei relativi poteri di organizzazione, gestione, controllo e spesa; oltre a ciò va considerato che l’obbligo di vigilanza del datore di lavoro in ordine al corretto espletamento delle funzioni trasferite ad altro soggetto garante non può tuttavia avere per oggetto la concreta, minuta conformazione delle singole lavorazioni, concernendo, invece, la correttezza della complessiva gestione del rischio da parte di quest’ultimo. Ne consegue che l’obbligo di vigilanza datoriale è distinto da quello dal soggetto al quale vengono trasferite le competenze afferenti alla gestione del rischio lavorativo, e non impone il controllo, momento per momento, delle modalità di svolgimento delle singole lavorazioni.
Non è quindi condannabile per omicidio colposo il datore di lavoro, quando il rischio concretizzatosi da cui si è originato l’evento mortale rientrava nella sfera di controllo del preposto.
Un lavoratore dipendente di un’impresa edile, mentre effettuava lavori di coibentazione di un terrazzo, inciampava sul bordo del terrazzo e precipitava nel vuoto. La caduta ed i conseguenti traumi provocavano il decesso del lavoratore.
Il punto da cui il lavoratore precipitava era privo di parapetti e al momento della caduta la vittima non indossava la cintura di sicurezza. Risultava agli atti del processo che a tutti i lavoratori erano stati consegnati i presidi antinfortunistici necessari, comprese le cinture di sicurezza che, se indossate, avrebbero impedito il decesso. Dalle indagini effettuate risultava inoltre che le cinture erano abitualmente indossate dalla generalità dei dipendenti dell’azienda coinvolta nel grave infortunio.
Risultava inoltre che il datore di lavoro aveva redatto regolare Documento generale per la sicurezza e l’igiene, aveva formalmente nominato il rappresentante dei lavoratori per la sicurezza quale preposto e capocantiere, aveva redatto regolare Piano operativo per la sicurezza, contenente la valutazione dei rischi, nonché l’individuazione delle procedure e dei ruoli di chi vi doveva provvedere.
Il tragico incidente si verificava quindi in un contesto di complessivo rispetto da parte del datore di lavoro delle norme e dei presidi antinfortunistici.
In esito al giudizio di merito, in primo grado e in appello, il datore di lavoro veniva condannato e ritenuto colpevole di omicidio colposo unitamente al capocantiere/preposto. Risultava peraltro che il capocantiere, nel momento in cui si verificava l’infortunio, si era allontanato dal cantiere, omettendo di sorvegliare lo svolgimento delle operazioni e – specificamente – omettendo di controllare che il lavoratore infortunato indossasse le cinture di sicurezza.
Per i giudici di merito, l’omesso obbligo di vigilanza era riferibile sia al datore di lavoro sia al capocantiere, ritenuti entrambi responsabili di omicidio colposo.
Avverso tale decisione proponeva ricorso per cassazione il datore di lavoro, lamentando che non era stata presa in considerazione la specifica posizione di garanzia e sorveglianza di altri soggetti – tra cui il citato capocantiere – regolarmente e formalmente designati nelle rispettive funzioni.
La Suprema Corte ha accolto il ricorso del datore di lavoro, affermando il principio di cui alla massima in epigrafe e cassando la sentenza impugnata con rinvio ai giudici di merito.
In particolare, secondo la Corte, “in temi di infortuni sul lavoro la titolarità di una posizione di garanzia non comporta, in presenza del verificarsi dell’evento, un automatico addebito di responsabilità colposa a carico del garante, imponendo il principio di colpevolezza la verifica in concreto sia della sussistenza della violazione – da parte del garante – di una regola cautelare (generica o specifica), sia delle prevedibilità ed evitabilità dell’evento dannoso che la regola cautelare violata mirava a prevenire (cosiddetta concretizzazione del rischio) sia della sussistenza del nesso causale tra la condotta ascrivibile al garante e l’evento dannoso”.
Secondo la Corte, in presenza di preposti formalmente e regolarmente incaricati e/o di una delega di funzioni, prima di affermare la responsabilità del datore di lavoro va verificato in concreto se il rischio concretizzatosi rientri o meno nella sfera di controllo e negli obblighi di sorveglianza del soggetto incaricato, considerato anche che non è esigibile dal datore di lavoro un controllo “momento per momento della conformità delle lavorazioni ” alle regole di sicurezza.
Nella specie tutti i presidi di sicurezza erano stati rispettati ed i lavoratori erano stati dotati di cinture di sicurezza. L’incidente oggetto del giudizio invece era derivato dall’omessa vigilanza sul rispetto dell’obbligo del lavoratore di indossare la cintura di sicurezza. Ma tale omessa vigilanza, secondo la Corte, non è imputabile nel caso concreto anche al datore di lavoro ma è imputabile alla specifica posizione di garanzia assunta dal capocantiere, che peraltro al momento dell’incidente risultava essersi allontanato.
Va rilevato che nella specie la “deresponsabilizzazione” del datore di lavoro si fonda su una rigorosa verifica nella fattispecie concreta dell’integrale rispetto di tutte le norme ed i presidi di sicurezza e sulla esclusiva ascrivibilità del rischio concretizzatosi – alla luce delle peculiarità del caso concreto – allo specifico dovere di vigilanza gravante sul capocantiere (soggetto formalmente investito e – sottolinea la Corte – dotato della necessaria esperienza per prevenire l’incidente).
Va tenuto presente che non in tutti casi l’investitura di un preposto o una delega di funzioni possono valere ad escludere la responsabilità del datore di lavoro, così come quando il rischio concretizzatosi e causa dell’infortunio attiene a mancanze strutturali o a violazioni sistematiche delle norme di sicurezza, del cui rispetto il datore di lavoro rimane sempre il primo garante, pur in presenza di altri soggetti incaricati con le rigorose modalità e con i stringenti requisiti previsti dalla normativa vigente.
Studio Legale Daverio & Florio Milano
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