Rassegna di giurisprudenza – Impugnazione del verbale di conciliazione sottoscritto in sede sindacale

di Bernardina Calafiori* e Alessandro Daverio** 

Cass., sez. lav., 7 novembre 2018, n. 28448

Massima:

«Al fine di potere qualificare come transazione la dichiarazione liberatoria del lavoratore, contenuta nel verbale della conciliazione avvenuta in sede sindacale, è necessario non soltanto ravvisare nel testo, o aliunde, elementi che manifestino la chiara e piena consapevolezza del dichiarante di abdicare o transigere diritti determinati o oggettivamente determinabili, ma anche le reciproche concessioni tra le parti, escludendosi l’applicazione dell’art. 2113, comma 4, c.c., qualora, invece, si sia in presenza di una mera quietanza, recte dichiarazione di scienza».

 La dipendente e il suo datore di lavoro, in occasione della cessazione del rapporto di lavoro, sottoscrivevano un verbale di conciliazione in una sede sindacale, con l’efficacia di cui all’art. 2113, comma 4 c.c. Nel verbale, tra l’altro la dipendente accettava di ritenere come “transatte e rinunciate tutte le azioni” nei confronti della società.

La dipendente impugnava davanti all’autorità giudiziaria detto accordo sindacale sostenendo che il verbale sottoscritto dalle parti non costituisse una vera e propria transazione ex art. 1965 c.c., poiché non vi erano concessioni reciproche delle parti che fossero idonee a rivestire la natura appunto “transattiva”. Infatti – sosteneva la dipendente – a fronte della incondizionata rinuncia della dipendente la società non avrebbe corrisposto alcuna somma.

I giudici di merito, accoglievano le domande della dipendente, qualificando il verbale sottoscritto come “mera dichiarazione di scienza” e “quietanza a saldo” della avvenuta corresponsione delle spettanze di fine rapporto.

Avverso la pronuncia della Corte d’Appello, la società proponeva ricorso per Cassazione, affermando al contrario, che nella sede sindacale di sottoscrizione la dipendente era stata resa edotta del carattere transattivo delle rinunce contenute nel verbale.

La Corte respinge il ricorso sostenendo che non vi fossero elementi oggettivi tali da qualificare il verbale come transazione e che la volontà di rinunciare ad azioni e diritti futuri debba emergere in modo chiaro.

Dice la Corte infatti che:

«Nella dichiarazione liberatoria sono ravvisabili invece gli estremi di un negozio di rinunzia o transazione in senso stretto soltanto quando per il concorso di particolari elementi di interpretazione contenuti nella stessa dichiarazione, o desumibili aliunde, risulti che la parte l’abbia resa con la chiara e piena consapevolezza di abdicare o transigere su propri diritti».

Questo in termini generali, nel caso specifico poi del rapporto di lavoro, si può desumere l’esistenza di un negozio transattivo, soltanto ove le parti abbiano operato concessioni reciproche. Dice infatti la Corte che:

«Per poter qualificare come atto di transazione l’accordo tra lavoratore e datore è necessario che contenga lo scambio di reciproche concessioni, sicchè, ove manchi l’elemento dell’aliquid datum, aliquid retentum, essenziale ad integrare lo schema della transazione, questa non è configurabile».

La Cassazione infine non ignora la circostanza che l’art. 2113 c.c., comma 4 prevede che le conciliazioni sottoscritte nelle sedi di cui agli artt. 185, 410 e 411, 412 ter e 412 quater del codice di procedura civile non siano sottoposte al regime (soprattutto di impugnabilità) di cui allo stesso 2113 c.c., ma nonostante ciò afferma:

«Che a nulla rileva, peraltro, che la transazione sia stata effettuata in sede sindacale atteso che, perchè possa applicarsi l’art. 2113 c.c., comma 4, che esclude la possibilità di impugnativa delle conciliazioni sindacali, deve pur sempre trattarsi di un atto qualificabile come transazione e non di una mera quietanza liberatoria». 

La sentenza in commento, con un’attività interpretativa quasi “creativa”, sembra sindacare la volontà delle parti qualificando la transazione come mera “dichiarazione di scienza” o “quietanza a saldo” ove non vi sia un corrispettivo per le rinunce. Ciò nonostante la legge predisponga lo strumento delle sedi c.d. “protette” proprio per prevenire eventuali “abusi” nelle rinunce. Così facendo, pur se appartenente ad una corrente minoritaria, scalfisce in parte uno strumento che con tutti i limiti del caso, ha contribuito a creare chiarezza e certezza nei rapporti giuridici, soprattutto in occasione della cessazione dei rapporti di lavoro.

* Avvocato, socio fondatore dello Studio Legale Daverio & Florio
**Avvocato, Studio Legale Daverio & Florio

 

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