Rassegna di Giurisprudenza : Licenziamenti tramite E-mail si può – Tre interessanti pronunce della Cassazione su temi d’attualità

a cura di Bernardina Calafiori* 

Corte di cassazione, Sezione lavoro – Sentenza n. 29753 del 12 dicembre 2017 (pres. nobile, rel. Spena) 

Il requisito della forma scritta per il licenziamento richiesto dall’art. 2 della legge n. 604/1966 può essere assolto con qualunque modalità che comporti la trasmissione al destinatario del documento scritto nella sua materialità, compreso l’invio tramite email della lettera di licenziamento. 

Il caso deciso con il provvedimento in epigrafe riguardava la contestazione della legittimità del licenziamento per mancato superamento del periodo di prova. In particolare il dipendente lamentava il fatto di aver ricevuto la lettera di licenziamento solamente con una mail a cui era allegata la lettera di licenziamento in formato PDF (senza firma digitale e fuori dal circuito PEC); ciò nella tesi del ricorrente avrebbe costituito una violazione dell’art. 2 della legge n. 604/1966 ai sensi del quale “Il datore di lavoro deve comunicare per iscritto il licenziamento al prestatore di lavoro”.

La Corte di Cassazione, con la sentenza n. 29753, ha rigettato il ricorso affermando che il requisito della comunicazione per iscritto dell’art. 2 “deve ritenersi assolto, in assenza della previsione di modalità specifiche, con qualunque modalità che comporti la trasmissione al destinatario del documento scritto nella sua materialità”. Di fatto, la Suprema Corte ha evidenziato che la ratio della norma consente di ritenere ammissibile qualsiasi mezzo di comunicazione idoneo a portare a conoscenza la lettera di licenziamento, a condizione che sia dimostrato o riconosciuto che il messaggio e, per il caso in esame, relativo allegato siano stati ricevuti dal lavoratore “licenziato”. Nel caso di specie, la prova del ricevimento del messaggio (e del relativo contenuto) stava in una comunicazione che il lavoratore licenziato aveva inviato a tutti colleghi, sempre a mezzo mail, informandoli che non avrebbe più lavorato presso l’azienda. Chiaramente il messaggio era incompatibile con la mancata conoscenza del provvedimento aziendale, invocata dal dipendente. La sentenza in commento conferma pertanto un orientamento già seguito da alcuni Tribunali di merito. Sul tema è infatti nota l’ordinanza del 27 giugno 2017 del Tribunale di Catania nella quale era stato ritenuto legittimo il licenziamento, sotto il profilo della sussistenza della forma scritta e della validità della sua comunicazione, intimato a mezzo «whatsapp». Il «whatsapp» assolveva, secondo l’ordinanza, l’onere della forma scritta, trattandosi di documento informatico dattiloscritto, che il lavoratore aveva con certezza imputato al datore di lavoro, tanto da provvedere a formulare tempestiva impugnazione stragiudiziale.

Corte  di  cassazione,  Sezione  lavoro  – Sentenza  n.  28978  del  4  dicembre  2017 (pres. nobile, est. Pagetta) 

Deve escludersi la sussistenza di un rapporto di lavoro subordinato fra l’amministratore delegato e la società laddove la condotta di relazionare al consiglio d’amministrazione e la presenza quasi costante in sede risultano perfettamente compatibili con il ruolo svolto. 

Il caso deciso con il provvedimento in epigrafe prende le mosse da un’azione di accertamento della natura subordinata del rapporto di lavoro promossa da un Amministratore delegato, nei confronti di una società per azioni, il cui ruolo era connotato dalle seguenti circostanze:

  • l’interposizione tra sé e il Consiglio di Amministrazione di un Consigliere di Amministrazione che, pur non potendo figurare come reale Amministratore delegato in quanto vincolato da un patto di non concorrenza con altra società, svolgeva di fatto il ruolo di Amministratore delegato;
  • l’adozione di una delibera assembleare con la quale si era esteso il numero di componenti dell’organo di gestione da tre a cinque;
  • l’impossibilità di poter scegliere personalmente il Dirigente tecnico;
  • l’essere tenuto a una presenza costante in sede e a relazionare sia all’Amministratore delegato de facto sia al Consiglio di La Corte di Cassazione, nella suddetta pronuncia, ha rigettato il ricorso e ha integralmente accolto l’orientamento della Corte d’Appello di Bologna, secondo la quale le circostanze indicate dal ricorrente non potevano essere ritenute idonei indici di subordinazione, trattandosi, al contrario, di fatti del tutto compatibili con il ruolo di Amministratore delegato. In particolare, tanto la Corte di Cassazione quanto la Corte d’Appello di Bologna hanno ritenuto che l’esistenza di un patto di non concorrenza in capo all’Amministratore delegato de facto costituisse un mero “indizio” circa la possibile presunta subordinazione del ricorrente, di per sé però non sufficiente ad avallare una pretesa diversa ricostruzione del rapporto di lavoro. Ad avviso delle due Corti, il ricorrente avrebbe dovuto allegare delle circostanze ulteriori, più specifiche e idonee a dimostrare la sussistenza di uno o più indici di subordinazione (ad esempio, provare l’assoggettamento al potere direttivo e disciplinare degli altri organi societari), ritenendo quanto da lui dedotto del tutto compatibile con il ruolo di Amministratore delegato e con le modalità di esecuzione del ruolo stesso.

Corte di cassazione, Sezione lavoro – Sentenza 6 dicembre 2017, n. 29241 (pres. nobile, rel. Garri) 

Ai fini dell’accertamento del requisito dimensionale richiesto per l’applicabilità dell’art. 18 della legge n. 300 del 1970, il numero dei dipendenti di un’articolazione aziendale priva di autonomia organizzativa ed amministrativa deve essere sommato a quello dei lavoratori impiegati presso la unità produttiva cui la predetta articolazione aziendale fa capo, anche se ubicate in comuni diversi. 

Il caso deciso con il provvedimento in epigrafe riguardava la riammissione in servizio di una dipendente a seguito di intervenuta declaratoria di illegittimità del di lei licenziamento. Il datore di lavoro riteneva che tale riammissione non potesse essere disposta per insussistenza dei requisiti dimensionali richiesti dall’art. 18 della legge n. 300 del 1970. In particolare, il datore di lavoro contestava che alcuni dei lavoratori conteggiati dalla lavoratrice con riferimento all’articolazione produttiva sita nel comune di Crotone, ove ella era stata da ultimo adibita, prestavano in realtà servizio presso un’unità produttiva sita in un diverso comune, e cioè quello di Cosenza. Il Tribunale di Crotone rigettava, tuttavia, le domande del datore di lavoro, ritenendo che la dimostrazione del requisito dimensionale per l’applicazione della tutela reale ben poteva essere raggiunto sommando il personale impiegato nel comune di Crotone con quello impiegato nel comune di Catanzaro. La pronuncia di prime cure veniva, poi, integralmente confermata dalla Corte di Appello di Catanzaro. Alle medesime conclusioni è, infine, pervenuta anche la Corte di Cassazione, che ha quindi rigettato il ricorso presentato dal datore di lavoro. In particolare, la Suprema Corte, ribadito che è onere del datore di lavoro provare l’insussistenza dei requisiti dimensionali per l’applicazione della tutela reale, ha sancito che il datore che invochi l’assenza di autonomia organizzativa ed amministrativa di una o più articolazioni aziendali e/o unità produttive è tenuto a dimostrarla e ad allegarla specificamente. Qualora tale allegazione manchi, oppure il datore di lavoro la deduca soltanto genericamente, ai fini dell’accertamento del requisito dimensionale richiesto per l’applicabilità della tutela reale, il numero dei dipendenti di una articolazione aziendale priva di autonomia organizzativa ed amministrativa va sommato a quello dei dipendenti in servizio presso l’unità produttiva cui la predetta articolazione aziendale fa capo; e ciò anche se l’unità produttiva autonoma e l’articolazione non autonoma siano ubicate in comuni diversi.

Con il provvedimento in epigrafe, la Corte di Cassazione ha inteso dare continuità ad un orientamento giurisprudenziale già adottato in precedenza, dimostrando con ciò di volerlo consolidare (cfr. Cass. Civ., Sez. Lav., sentenza del 4 ottobre 2004, n. 19837; Cass. Civ., Sez. Lav., sentenza del 10 novembre 1997, n. 11092). Per quanto riguarda la prova dell’autonomia organizzativa ed amministrativa di una o più articolazioni aziendali, si evidenzia come, per i Giudici di legittimità, la mancata tempestiva contestazione del lavoratore di tale autonomia può determinare acquiescenza verso la stessa solo a fronte di una previa, puntuale e specifica allegazione di siffatta autonomia da parte del datore di lavoro.

* Avvocato, socio fondatore dello Studio Legale Daverio & Florio

 

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