Riflessioni sulle collaborazioni eterorganizzate
di Domenico De Feo*
Il disegno ispiratore del Jobs Act ha confermato la volontà legislativa di rilanciare il contratto di lavoro subordinato a tempo indeterminato come forma contrattuale dominante: in tal senso, assume pregnante rilievo sistematico l’art. 1 del decreto legislativo 15 giugno 2015,n.81, che testualmente recita “il contratto di lavoro subordinato costituisce la forma comune di rapporto di lavoro”. Nella indicata direttrice di favor nei confronti della subordinazione si pone altresì una serie di evidenti indicatori, quali il superamento delle collaborazioni a progetto (art. 52, comma 1, della stessa norma) e dell’associazione in partecipazione con apporto di lavoro (art. 53), l’introduzione del contratto di lavoro a tutele crescenti (che comporta, per le assunzioni successive al 7 marzo 2015, una ulteriore marginalizzazione dell’area di applicazione della tutela reintegratoria (cfr. d.lgs. 23/2015), gli incentivi alle assunzioni sotto forma di sgravio contributivo e la flessibilizzazione dell’impiego delle risorse attraverso l’ampliamento dei limiti dello jus variandi, ossia del potere del datore di lavoro di assegnare il lavoratore a mansioni diverse (cfr. art. 2103 del codice civile, novellato dall’art. 3 del d.lgs. 81/2015).
Nel quadro delle misure volte alla prevenzione e contrasto degli abusi nell’impiego improprio della tipologia contrattuale del lavoro autonomo, l’art. 2 del d.lgs. n. 81/2015 ha disposto che, a partire dall’1 gennaio 2016, alle collaborazioni nella forma del contratto di collaborazione coordinata e continuativa od in quella del lavoro autonomo (c.d. “a partita iva”) si applica la disciplina del lavoro subordinato qualora le stesse si concretizzino in prestazioni di lavoro esclusivamente personali, continuative, e le cui modalità esecutive siano organizzate dal committente con riferimento ai tempi ed al luogo di lavoro. Appare evidente l’intento del Legislatore di restringere ulteriormente l’accesso a quelle forme di lavoro autonomo che si prestino ad un uso improprio, se non addirittura elusivo, spingendo i rapporti di collaborazione (non solo i co.co.co., ma anche le c.d. “partite iva”) verso l’area della subordinazione. Del resto, l’abolizione delle collaborazioni a progetto avrebbe potuto dare un rinnovato impulso alle collaborazioni coordinate e continuative (si ricorderà che il d.lgs. 276/2003, nell’introdurre l’obbligo di ricondurre le collaborazioni ad uno specifico progetto, mirava proprio a combattere l’utilizzo improprio di tale tipologia contrattuale).
La difficile catalogazione delle collaborazioni
Le cosiddette collaborazioni eterorganizzate pongono una serie di questioni, sia di carattere astratto/sistematico, sia pratico/ attuativo. Sotto il primo profilo, ci si deve chiedere se il legislatore si sia limitato ad introdurre una mera estensione della disciplina del lavoro subordinato a fattispecie di lavoro autonomo, o, se invece la norma venga a incidere sulla fattispecie “lavoro subordinato”, modificandone i confini. In altre parole, le collaborazioni organizzate dal committente conservano la loro natura di rapporti di lavoro autonomo o, piuttosto, il potere unilaterale del committente di organizzare le modalità di esecuzione della prestazione nel luogo e nei tempi impedisce che tali rapporti siano “coordinati con il committente” (la coordinazione presuppone infatti un accordo tra le parti nella esecuzione della prestazione).
L’interpretazione letterale della disposizione induce invero a ritenere che la statuizione estenda semplicemente il campo di applicazione della disciplina del lavoro subordinato a rapporti ritenuti di natura autonoma, senza alterare direttamente la natura del rapporto di cui all’art. 2094 del codice civile (in altre parole, le collaborazioni eterorganizzate non si collocano accanto alla fattispecie dei rapporti eterodiretti e, conseguentemente, non integrano l’area del lavoro subordinato). Ci sono invero altre considerazioni di carattere giuridico- interpretativo che portano alle stesse conclusioni, ma non è questa la sede per avventurarsi in sofisticate disquisizioni dottrinali. Quello che invece preme rilevare è che, dal punto di vista pratico/attuativo, non si può non osservare come diventi obiettivamente difficile districarsi tra le diverse tipologie di rapporto. Cerchiamo di fare un po’ di ordine:
- il coordinamento costituisce l’elemento qualificante della parasubordinazione;
- l’eterorganizzazione determina l’applicazione della disciplina del lavoro subordinato alle collaborazioni coordinate e continuative;
- l’eterodirezione rappresenta il principale elemento identificativo della subordinazione.
Semplificando così, la classificazione del rapporto sembrerebbe agevole, ma certo è che, al di là di banali sintetizzazioni, appare in concreto difficile distinguere tra collaborazione etero-organizzata e collaborazione coordinata: se infatti è vero che nella coordinazione le modalità di tempo e di luogo di esecuzione della prestazione devono essere concordate dalle parti nel contratto o di volta in volta durante lo svolgimento del rapporto, è altrettanto vero che la coordinazione stessa comporta l’inserimento del lavoratore nell’organizzazione aziendale e, dunque, una certa ingerenza del committente sulle modalità, anche spazio-temporali, di esecuzione della prestazione. Si aggiunga poi che, almeno di regola, il collaboratore è soggetto contrattualmente “debole”. Ne consegue che la coordinazione, in concreto, si atteggerà secondo forme e con modalità sensibilmente vicine, se non del tutto sovrapponibili, alla etero-organizzazione.
Per altro verso, le collaborazioni eterorganizzate, nel mantenere la loro natura di lavoro autonomo, interferiscono con la fattispecie del lavoro subordinato: si ricorderà infatti quella consolidata giurisprudenza che tende a ricondurre nell’areadellasubordinazioneancheirapporti caratterizzati da inserimento funzionale nell’organizzazione aziendale, e quindi in sostanza anche i rapporti caratterizzati da prestazioni eterorganizzate, pur in assenza della prova dell’eterodirezione; ci si intende qui riferire, in particolare, a quegli orientamenti giurisprudenziali che mirano alla valorizzazione degli indici sussidiari della subordinazione, riconducendo all’art. 2094 del codice civile i rapporti di lavoro caratterizzati dall’inserimento del prestatore nell’organizzazione dell’impresa, dalla continuità della prestazione lavorativa, dalla presenza di un orario di lavoro.
Da ciò consegue che l’estensione della disciplina del lavoro subordinato a fattispecie di lavoro autonomo operata dall’art. 2, primo comma, del d.lgs. 81/2015, restringe, sia pure in via indiretta, la fattispecie di cui all’art. 2094 del codice civile, e, più in particolare, la nozione di lavoro subordinato usualmente recepita dal diritto vivente.
Per meglio confondere il quadro, le Sezioni Unite della Corte di Cassazione, con sentenza n. 1545 del 20 gennaio 2017, hanno sensibilmente riavvicinato la fattispecie del lavoro coordinato all’area della subordinazione allorché hanno affermato che “il coordinamento deve essere inteso in senso verticale, ossia deve rappresentarsi come una situazione per cui il prestatore d’opera parasubordinata è soggetto ad un coordinamento che fa capo ad altri, in un rapporto che deve presentare connotati simili a quelli del rapporto gerarchico propriamente subordinato. È per questo, ossia al fine di favorire la parte normalmente più debole, che il rapporto parasubordinato è assoggettato dal legislatore alla medesima disciplina processuale prevista per quello subordinato. In altri termini, l’attività coordinata è sinonimo di attività in qualche misura eterodiretta o, comunque, soggetta ad ingerenze o direttive altrui.”
I contenuti dell’eterorganizzazione Affinché alle collaborazioni eterorganizzate possa essere applicata la disciplina del lavoro subordinato è necessario che congiuntamente ricorrano tutti e tre i requisiti indicati dall’art. 2, primo comma, del d.lgs. 81/2015, come precisato dalla circolare del Ministero del lavoro e delle politiche sociali n. 3 del 1° febbraio 2016.
Più in particolare, la collaborazione:
- deve avere carattere “esclusivamente personale” e non soltanto “prevalentemente personale”, come invece statuito dall’art. 409, primo comma, 3, del codice di procedura civile;
- deve avere carattere “continuativo”; da rilevare che mentre l’art. 409, 3, del codice di procedura civile usava il termine prestazione di opera (continuativa), la disposizione in commento fa riferimento alla prestazione di lavoro, cosa che lascia intendere come ormai in queste collaborazioni assuma rilievo il lavoro in sé considerato, senza alcun richiamo al concetto di opus e quindi di risultato;
- deve essere organizzata dal committente “anche con riferimento ai tempi e al luogo di lavoro”.
È importante evidenziare che il potere del committente di imporre alla prestazione lavorativa del collaboratore le modalità spazio-temporali più utili agli interessi dell’impresa sussiste non solo all’inizio del rapporto, ma anche nel corso del suo ordinario svolgersi, cosa che effettivamente incide sull’autonomia del collaboratore.
La certificazione dell’assenza dei requisiti delle collaborazioni organizzate dal committente
L’art. 2 comma 3, del d.lgs. 81/2015 prevede la possibilità di richiedere alle commissioni di certificazione di cui all’art. 76, d.lgs. n. 276 del 2003 che venga certificata l’assenza dei requisiti dell’art. 2, comma 1. L’oggetto della certificazione è indicato (e dunque si svolgerà) in negativo, nel senso cioè di assenza dei requisiti della continuità, della esclusiva personalità e della etero- organizzazione, nel qual caso verranno a prodursi gli effetti tipici della certificazione. In un quadro di riferimento così complicato, ricorrere alla certificazione può costituire un ottimo rimedio a fronte delle incertezze applicative e dei problemi di catalogazione della fattispecie fin qui segnalati.
* Avvocato in Roma, Studio legale Marazza e Associati
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